Religione, “O Dio, sii propizio a me, il peccatore”

di Il capocordata

L’evangelista Luca predilige le parabole: delle cinquanta circa che contiamo nei vangeli sinottici, ne riporta una quarantina, di cui quindici gli sono proprie. Quella del fariseo e del pubblicano (Lc. 18, 9-14) è tra queste ultime. Le parabole che Luca racconta, più che delle similitudini sono degli esempi concreti di atteggiamenti da imitare o da evitare.

L’introduzione (v. 9)

Precisa l’uditorio. Conoscere il destinatario di una lettera e le sue preoccupazioni ci aiuta a capirla meglio. Ma non è sempre facile scoprire il vero uditorio di una parabola. “Gesù disse questa parabola per alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri”, cioè per i farisei contemporanei di Gesù e degli apostoli, ma anche per i farisei di tutti i tempi. Indubbiamente c’erano dei farisei cattivi, ma i farisei erano innanzitutto i “santi” dell’AT: uomini e donne profondamente religiosi che hanno rischiato tutta la loro vita su Dio e sulla sua Legge, che essi studiano con amore e meticolosità. Sono modelli di pietà, ammirati e amati dal popolo minuto, sul quale esercitano una profonda influenza. Perché Gesù se la prende con loro con tanta forza? Per una certa disposizione del loro cuore. Luca la riassume in alcune parole di sapore fortemente teologico: “alcuni che presumevano di essere giusti”.

Il fariseo e il pubblicano, ovvero il nostro atteggiamento spirituale di fondo rivelato nella preghiera (vv. 10-13)

Gesù mette in scena due uomini che salgono ad incontrarsi con Dio, nel tempio dove egli abita e nell’atto che rappresenta il culmine di questo incontro: la preghiera. Un fariseo e un pubblicano: i due estremi della religiosità ebraica. Il “bravo praticante” irreprensibile, che non trova nulla da accusare nonostante una minuziosa disamina della sua coscienza; e il “peccatore-tipo”, il pubblicano, colui che, per la sua stessa situazione e per il suo mestiere, si vota all’ingiustizia e all’empietà e che, nella categoria dei peccatori, è messo sullo stesso piano delle prostitute.

L’ “eucaristia” del fariseo. In piedi, il fariseo “rende grazie”. Una preghiera magnifica, assai pura: nessuna richiesta per se stesso, soltanto un “grazie” al Signore per come egli è. Egli evita qualsiasi peccato, e compie continuamente opere buone. E’ un santo o un giusto, per parlare come la Bibbia. Egli lo sa, e sa anche che ciò gli frutterà la vita eterna. Nulla ha da invidiare al pubblicano, benché questi sia ricco e abbia la vita facile, e per niente al mondo non cambierebbe la sua vita con quella di lui.

La confessione del peccatore (v. 13). Il fariseo veniva a ringraziare. Il pubblicano viene a confessarsi. Anche lui è in piedi, ma si tiene a distanza, con gli occhi bassi e battendosi il petto prega con poche parole semplicissime ma ammirevoli: “Dio, abbi pietà di me peccatore!”. La fede è innanzitutto l’incontro di due persone nel dialogo dall’Io al Tu. Quando si invoca una ragione per il perdono è “a causa del tuo nome”: la ragione di tale perdono non si trova nell’uomo, nella sua giustizia o nei suoi meriti, ma nella santità del nome di Dio.

“Di me peccatore”: La nozione di peccato ha senso solo in un rapporto interpersonale. Se si considera l’evoluzione del popolo di Dio, si nota come caratteristica che a mano a mano che l’idea di Dio si approfondisce, l’idea di peccato viene sviscerata. L’idea di peccato è come il contrario dell’idea di Dio. Non è col rimuginare le proprie colpe che si può giungere alla contrizione, ma solo mettendoci davanti a Dio, e soprattutto al Figlio di Dio in croce.

Se la preghiera rivela il nostro atteggiamento spirituale di fondo, è chiaro che Gesù con questo felice contrasto tra fariseo e pubblicano vuole presentarci due diversi tipi di credenti: il fariseo, pieno di sé e dei suoi meriti, tratta Dio come “l’oggetto” del suo ringraziamento; il pubblicano considera Dio l’unico “soggetto” che può perdonare i suoi peccati. Il fariseo pregava rivolto a se stesso, “si ascoltava pregare”: egli è il soggetto di tutti i verbi; è talmente perfetto che Dio, di fronte a lui, è ridotto al rango di complemento. Il pubblicano, al contrario, è il tipo stesso del “povero”: non ha nulla in se stesso che possa dargli fiducia di fronte a Dio. Non gli resta dunque che una soluzione: confidare in Dio. In questo dialogo dall’Io al Tu, il fariseo si appoggia sul suo “Io” per ringraziare il “Tu” divino, il pubblicano si sente innanzitutto interpellato da questo “Tu” e accetta la sua vita come un dono di Dio.

Conclusione: non “giusto” ma “giustificato” (v. 14)

Il pubblicano viene giustificato, a differenza del fariseo. Solo il pubblicano “trova grazia” agli occhi di Dio. Ciò che permette all’uomo di stare di fronte a Dio non è più da ricercare nell’uomo ma in Dio: non più giustizia ma grazia. Il nostro vero atteggiamento di fronte a Dio è quello del Giusto sofferente che si abbandona al Padre sulla croce, ricevendo da lui, il mattino di Pasqua, la sua umanità glorificata come ricompensa della sua offerta interiore. E il solo modo per noi di essere giusti davanti a Dio, è di trovarci, per mezzo della fede, partecipi di questo atteggiamento interiore di Gesù. Allora, e solo allora, questa vita di Cristo in noi produrrà i suoi frutti, si manifesterà attraverso le nostre opere. Il tragico errore dei farisei consiste nel fatto che “presumono di essere giusti”. Essi considerano le loro opere come la causa della loro salvezza, mentre non sono altro che l’effetto; le considerano come un merito, una garanzia di fronte a Dio, mentre non sono che un dono di Dio! Il pubblicano, il povero, il peccatore che si riconosce come tale è colui che accetta se stesso e tutto il bene compiuto come un dono di Dio.                                                 

Bibliografia consultata: Charpentier, 1972.

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