Sea Watch e Carola Rackete: un’altra occasione persa dalla magistratura

Il buffetto a Carola Rackete è un altro sintomo della distanza tra i giudici e il popolo

L’ennesima occasione persa dalla nostra magistratura e il buffetto a Carola Rackete è un altro sintomo della distanza tra i giudici e il popolo. Nei giorni e nelle settimane scorse abbiamo capito molte cose. Siamo venuti a sapere di un’alleanza tra magistratura e politica tesa, pare, a condizionare le nomine di importanti Procure onde permettere a un paio di burattinai di non passare più notti insonni a causa di certe scomode e sgradevoli inchieste.

Abbiamo scoperto con sgomento l’esistenza di una (altra) sedicente rete umanitaria che lucrava sulla pelle di bambini e adolescenti, strappati alle loro famiglie con futili pretesti e false dichiarazioni degli assistenti sociali, “ricondizionati” anche con l’elettroshock perché denunciassero abusi mai avvenuti, affidati a coppie che non avevano neanche lontanamente i requisiti per far loro da genitori: se non quello della prossimità con chi tirava le fila di questo atroce meccanismo.

E, proprio nelle ultime ore, abbiamo appreso che si possono violare le leggi di uno Stato sovrano, sfidarne l’autorità per biechi motivi politici mascherati da ragioni umanitarie, mettere a rischio con un atto di pirateria l’incolumità di vari servitori dello Stato – senza per questo meritarsi un lungo soggiorno nelle patrie galere.

Questo è il messaggio che passa dopo il buffetto del Gip di Agrigento Alessandra Vella a Carola Rackete. A chi, del resto, non è mai capitato di tanto in tanto di speronare una motovedetta della Guardia di Finanza? Per il capitano (mi si perdoni, ma il neologismo al femminile non riesco proprio a digerirlo) della Sea Watch 3 sono stati spesi, nei giorni scorsi, paragoni ridicoli e improbabili come quello con Antigone. Potenza dell’ignoranza da social network, megafono epidemico per quanti, decontestualizzandoli, hanno citato (a sproposito) i versi in cui l’eroina sofoclea, rigettando l’editto con cui il Re di Tebe Creonte ha vietato la sepoltura del di lei fratello Polinice, rivendica il suo diritto a opporsi alle leggi ingiuste in virtù della preminenza della legge morale naturale.

Un caso, cioè, che solo ad accostarlo a quello della filibustiera teutonica dovrebbe far rivoltare Sofocle nella tomba. Per esempio perché Antigone agisce per ragioni etiche (non politiche), peraltro opponendosi al diktat di un tiranno – non alle norme di un Governo democraticamente eletto e, per ciò stesso, espressione della maggioranza del popolo sovrano. Volendo, poi, si potrebbe anche aggiungere che il comportamento di Antigone non ha conseguenze sui suoi concittadini (ma solo su se stessa) e che, in ogni caso, c’è una leggerissima differenza tra inumare un defunto e violare i confini di una Nazione.

Dato a Sofocle quel che è di Sofocle, c’è un altro aspetto particolarmente grave in questa vicenda: l’atteggiamento dei giudici che, as usual, anziché applicare la normativa (nello specifico, il Decreto Sicurezza bis) la interpretano sulla base delle proprie convinzioni – eccezion fatta per i vicini di ideologia, ça va sans dire. Con ciò confermando una volta di più la propria elitaria distanza rispetto al popolo, e ai suoi rappresentanti, tutti evidentemente considerati alla stregua di bambini da rieducare. La legge sarà anche uguale per tutti ma, a quanto pare, c’è sempre, orwellianamente, qualcuno più uguale degli altri.

Forse però non è esattamente una mossa intelligente in un periodo in cui la magistratura deve fare i conti con un gravissimo scandalo interno. Anche la percezione conta. E questa decisione rischia di essere l’ennesima occasione mancata per ricucire lo strappo con i cittadini: che inevitabilmente continuano a veder vacillare la propria fiducia verso un’istituzione che dovrebbe essere, ma anche apparire, assolutamente super partes.

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