Convertirsi per vivere

Un invito pressante alla conversione

Il Vangelo (Lc. 13, 1-9) che sarà proclamato durante la liturgia eucaristica della terza domenica di Quaresima ci racconta come Gesù prese lo spunto da due avvenimenti recenti della storia locale per esortare i suoi ascoltatori alla penitenza. Il primo di questi fatti di “cronaca nera” gli viene riferito “da alcuni” (v. 1) e si trattava del massacro di galilei per mano di Pilato durante i loro sacrifici nel tempio di Gerusalemme. Il secondo di questi fatti, già noto anche a Gesù perché avvenuto da poco tempo, si trattava della caduta della torre di Siloe, la quale aveva provocato la morte di diciotto persone. Al ricordo di entrambi i fatti, Gesù fa seguire il medesimo insegnamento, e cioè quello di un invito urgente alla conversione per non morire tutti allo stesso modo (“ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” vv. 3.5). Ammiriamo solo di sfuggita il senso “pedagogico” di Gesù: nel suo insegnamento egli sa partire dai fatti della vita.

Anche se non possediamo alcun’altra fonte che ci parli di questi due fatti, possiamo affermare con certezza che essi siano realmente accaduti. Il primo fatto è del tutto verosimile, se teniamo conto di ciò che Giuseppe Flavio, uno storico contemporaneo agli evangelisti, ci dice sulle repressioni sanguinose da parte di Pilato. I galilei di cui parla Luca potrebbero essere Zeloti, nazionalisti avversi ai romani, venuti nel tempio per la Pasqua: il loro partito si era sviluppato in Galilea, e i pellegrinaggi fornivano alla loro agitazione falso messianica l’occasione per raggiungere la città santa di Gerusalemme. Quanto all’episodio estremamente preciso della torre di Siloe, la cui caduta provocò la morte di diciotto persone, certamente si trattava di un ricordo vissuto, mettendo in forse la fede nella paternità di Dio e nella sua provvidenza. Gesù lo prende in seria considerazione, prevenendo la domanda che urge nel cuore degli interlocutori.

Come abbiamo già accennato, Gesù si serve di questi due fatti di cronaca per esortare i giudei del suo tempo alla penitenza. L’invito alla conversione e alla penitenza, nella prospettiva di un giudizio finale imminente, è certamente un tema fondamentale dell’insegnamento del maestro nella prima fase del suo ministero: “convertitevi e credete al Vangelo” (Mc. 1, 15). Il tempo che incalza è quello del pentimento, condizione necessaria perché il giudizio non si concluda con una sentenza di condanna. Qual è questo duplice insegnamento che Gesù vuole impartire ai suoi ascoltatori contemporanei e a noi che lo sentiamo parlare oggi dopo oltre duemila anni?
Al tempo di Gesù, e forse anche nel nostro tempo, la mentalità popolare continuava a legare la sventura terrena al peccato. Gesù afferma con forza che la disgrazia non può essere il segno del peccato: “No, vi dico” (vv. 3.5), i galilei uccisi da Pilato non erano “peccatori” (v. 2) più degli altri galilei, né le vittime dell’incidente di Siloe erano più “colpevoli” (v. 4) degli altri abitanti di Gerusalemme. Certamente il male rimane per tutti noi un mistero incomprensibile, ma nessuno è autorizzato ad identificarlo come un castigo inflitto da Dio, bensì come urgenza di conversione. Con il peccato originale si è rotta l’armonia uomo-mondo, ed ogni evento insensato ci richiama a cercare nella conversione il senso di una vita che il peccato ha esposto al vuoto, “alla caducità” (San Paolo).

“Ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo” (vv. 3.5): questa minaccia rappresenta il punto culminante del brano. Possiamo affermare che Gesù passa da un pericolo di morte ad un altro, e cioè alla morte eterna? Se teniamo conto della parabola del fico sterile che segue immediatamente questo insegnamento di Gesù (vv. 6-9) e l’espressione “allo stesso modo” ripetuta per ben due volte che suppone una sventura analoga alla precedente, allora dobbiamo dire che il castigo temporale di cui Gesù parla deve intervenire come un avvertimento e un’anticipazione del giudizio universale che avrà luogo alla fine dei tempi e che sarà meno severo verso Tiro e Sidone, Sodoma e Ninive rispetto agli abitanti di Cafarnao, Corazin e Betsaida che non hanno voluto convertirsi alla voce di Gesù. Solo la mancata conversione sarà causa di morte e non Dio che permette tali sventure per invitarci alla conversione, poiché tutti siamo peccatori. Oggi, se non ci convertiamo, è vero che periamo tutti: non per volontà di Dio, ma per volontà, o meglio stupidità, nostra! La nostra conversione è non considerare la vita biologica come valore assoluto: è per questa che si accumula e si fanno tutte le ingiustizie. Il valore assoluto è la fraternità e la solidarietà a livello interpersonale e sociale (globale): questa è già vita eterna, che nella morte non ci viene sottratta. La conversione radicale è uscire dal delirio di onnipotenza: accettare la vita e la morte come comunione con Dio.

L’insegnamento di Gesù dei due esempi di cronaca è simile alla parabola del fico (vv. 6-9) che non porta frutti al proprietario della vigna, per cui dà ordini al suo contadino di tagliarlo: parabola che segue immediatamente dopo. Alla proposta del suo vignaiuolo di pazientare ancora un anno, il proprietario acconsente per vedere se in avvenire avesse portato qualche frutto. Vediamo che anche nella parabola è contenuto l’invito alla penitenza: è come se Gesù dicesse ai suoi ascoltatori di affrettarsi a pentirsi, perché è questo l’ultimo rinvio che Dio ci accorda prima del giudizio. E’ facile vedere nel fico sterile il popolo di Israele, la vigna del Signore, che si è dimostrata infedele all’amore di predilezione del suo Signore. Le cure eccezionali del contadino per ancora un anno, come racconta la parabola, rappresentano gli sforzi che Gesù farà fin dall’inizio della vita pubblica per condurre il suo popolo alla penitenza. Vi riuscirà? La parabola del fico non ci dà la risposta, forse perché Gesù si trova ancora all’inizio del suo ministero. O forse perché Luca ha voluto probabilmente lasciarci un insegnamento sulla misericordia di Dio, lento alla collera e pieno d’amore, che temporeggia quanto più è possibile, attendendo la conversione del peccatore e facendo di tutto per ottenerla.
“…se no, lo taglierai” (v. 9). Non è una minaccia di giudizio; è una costatazione della sterilità di chi non si converte a Gesù e non si unisce a lui, la vera vite. Chi non crede si autocondanna per la sua stessa incredulità come uno che ha preferito le tenebre alla luce. Sono pessimista se vedo nell’umanità di oggi il rischio concreto di questa autocondanna?

Bibliografia consultata: Ternant, 1972; Fausti, 2011.

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