L’uomo ricco e il povero Lazzaro

“Fatevi amici col Mammona” (l’ingiusta ricchezza)

La parabola del ricco epulone (che banchettava lautamente) e del povero Lazzaro (Lc. 16, 19-31), secondo gli studiosi, ha alcuni paralleli nelle antiche letterature in Egitto e in Palestina. Un racconto egiziano, la cui redazione risale al sesto secolo avanti Cristo, propone l’opposizione tra la condizione degli uomini sulla terra e poi nell’aldilà, e inoltre contiene l’affermazione della retribuzione nell’oltretomba. Un racconto rabbinico della tradizione giudaica contiene gli stessi elementi: si contrappone la sepoltura di un uomo devoto e di un pubblicano e il rovesciamento nell’oltretomba della loro condizione terrena.

Il contesto in cui Luca ha inserito la parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone, contribuisce in modo determinante a mettere in luce il suo significato: egli la indirizza ai rappresentanti del pensiero giudaico e vuol parlare loro della Legge. La prima scena della parabola presenta i due personaggi nella loro condizione terrena: il ricco se la gode nel lusso (v. 19), è il contrario di Gesù, che da ricco che era, si fece povero, si svuotò di sé e si fece tapino; il povero Lazzaro soffre tutto solo nella miseria (v. 20-21), egli è figura di Gesù, ultimo dei poveri, che ha posto tutta la sua fiducia nel Padre, unico principio della propria vita. Il fatto che quest’ultimo porti un nome proprio è un caso unico nelle parabole di Gesù.
Certamente non riguarda il fratello di Marta e Maria, anche perché viene rappresentato da Luca sotto le sembianze di un povero. La parabola dà un nome al povero semplicemente perché il seguito del racconto lo esige: in realtà, il nome Lazzaro (Dio ha soccorso) si presta molto bene alla narrazione.

Improvvisamente la morte trasforma la condizione del ricco e del povero. Entrambi si ritrovano nel soggiorno dei morti. Ora è il ricco a soffrire tra i tormenti, mentre Lazzaro siede al posto d’onore alla tavola del festino, accanto ad Abramo. Il ricco, bruciato dalle fiamme, supplica Abramo di procurargli un po’ di refrigerio per mezzo di Lazzaro. Gli chiede quella pietà che non ebbe per Lazzaro. Ma come osa chiamarlo “Padre”, se non ne ha riconosciuto il figlio? Lazzaro dovrebbe dar sollievo al suo tormento. Dio l’aveva gettato alla sua porta povero, affamato e piagato, proprio perché ne avesse pietà e potesse così venire accolto nelle dimore eterne. Perché chiedere dopo morte proprio ciò che gli viene donato già in vita? Bisogna aprire gli occhi sui poveri: la salvezza viene da loro, sacramento di Cristo, prolungamento della sua missione.

Abramo tira la morale della situazione. Egli presenta la vita d’oltretomba come il rovesciamento delle condizioni avute sulla terra: quelli che ora sono felici saranno infelici nel secolo futuro, gli sventurati di questo mondo saranno i privilegiati del mondo futuro. Abramo aggiunge poi un’altra lezione: la morte fissa per sempre il destino di ogni uomo; Lazzaro non può più andare dal ricco, né questi raggiungere Lazzaro. La loro sorte è fissata in maniera irrevocabile: ecco il significato dell’immagine del “grande abisso” (v. 26) che li separa. Questo abisso lo ha scavato il ricco epulone non riconoscendo in Lazzaro suo fratello. Se la salvezza per il figlio maggiore è accogliere il fratello minore, per il ricco la salvezza è ospitare il povero. La vita terrena è il tempo per valicare l’abisso tra ricchi e poveri. Il povero, già salvato da Dio, salva chi lo accoglie, ospitandolo a sua volta con sé nelle dimore eterne.

Lo sventurato uomo ricco, tra i supplizi, non insiste: deve rassegnarsi alla sua condizione. Ma pensa ai suoi cinque fratelli che certamente stanno continuando la vita di godimenti che egli stesso aveva condotto fino a poco prima. Propone ad Abramo di farli avvertire da Lazzaro mediante una sua apparizione. Abramo risponde che quelle persone hanno Mosè e i profeti, cioè le sacre Scritture. Il dannato insiste con l’affermare che l’apparizione di un morto basterebbe ad ottenere la conversione dei suoi fratelli, i quali eviterebbero in tal modo di condividere la sua sorte. Si tratta della richiesta di un segno eccezionale analoga a quella che i giudei rivolgono a Gesù. Abramo conclude che il messaggio rivelato delle Scritture è più convincente della risurrezione di un morto. E’ il pensiero di Gesù quando si rifiutava di dare i segni che gli venivano chiesti, quando circondava i suoi miracoli di tanta discrezione e modestia. Forse, molto più che alla risurrezione di Lazzaro, l’amico di Gesù, Luca pensa qui a quella di Gesù stesso che ha avuto così poco effetto su Israele. Il vero problema è credere alla parola di Dio. Essa ci dona la misericordia del Padre e invita tutti a partecipare alla sua gioia per il Figlio morto e risorto. Fin che siamo vivi, siamo chiamati ad ascoltarlo e non deriderlo: anche quando pone l’alternativa tra Dio e Mammona, l’ingiusta ricchezza. Chi crede in lui, accoglie l’amore del Padre e ama i fratelli.

Questo, dunque, è il significato che Luca attribuisce alla parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone: si tratta di un insegnamento che riguarda Israele, poiché è ai farisei che Gesù la rivolge. Ad essi viene rivolto l’invito alla conversione, perché nella Legge e nei profeti Israele possiede tutta la luce necessaria per trovare la via della salvezza: i miracoli non sono che segni secondari e inefficaci per chi non crede alla parola di Dio contenuta nelle Scritture. La prima parte della parabola mette in risalto l’urgenza di questa conversione: la morte viene improvvisamente e fisserà il nostro destino; dopo sarà troppo tardi per mutarlo.

Luca, quindi, riporta fedelmente il messaggio di Gesù: l’annuncio della salvezza per i poveri, la preoccupazione della conversione di Israele, il rifiuto dei segni eccezionali voluti dai giudei, l’insistenza sul valore delle Scritture, il ricco è dannato perché non è stato capace di accumulare tesori presso Dio con l’iniqua ricchezza. Il popolo di Dio ha nella sua tradizione tutto ciò che gli è necessario per riconoscere la via della salvezza; non deve chiedere segni eccezionali. Infatti, di tutti i segni che Dio accorda ai suoi, il più grande è la sua Parola. E’ un insegnamento molto valido e attuale anche oggi, per tanti di noi sempre alla ricerca di apparizioni celestiali per puntellare la loro mancanza di fede; alla ricerca del sensazionale evento religioso e di celebrazioni liturgiche improntate sempre di più al magismo e ai fenomeni straordinari che convincano i più riottosi verso la fede. Tutto è contenuto in quel piccolo libro che chiamiamo Vangelo!

Bibliografia consultata: George, 1971; Fausti, 2011.

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