La pagliuzza e la trave: il pericolo dell’ipocrisia

Non basta agitare crocifissi o rosari e neppure esibire un vangelo per essere cristiani

il capocordata

Il Capocordata

Gesù continua a istruire gli apostoli e la gran moltitudine di discepoli e di folla convenuta presso di lui ricorrendo allo stile della comunicazione parabolica (Lc. 6, 39-45). Sembra che l’evangelista Luca adatti le parole di Gesù al contesto della vita comunitaria, dove la qualità delle relazioni fraterne è indicativa della fede e della carità che deve ispirare ciascun membro.

Istruzioni per la vita della comunità

Chi è preposto alla guida della comunità cristiana ha il compito di far conoscere la via da seguire, in conformità al messaggio del Cristo. Non deve lasciarsi accecare dalla superbia o dalla presunzione, altrimenti sarà simile a un cieco che presume di guidare un altro cieco (v. 39). E’ un’espressione proverbiale, diffusa anche nell’ambito della letteratura giudaica e greca, con la quale si evidenzia l’assurda pretesa di chi vuole assumersi l’onere della guida, senza disporre della competenza e dei mezzi per poter adempiere a tale incarico.

Inoltre: come il cristiano, per essere degno figlio di Dio, è chiamato a essere misericordioso come il Padre celeste, così sarà sufficiente per il discepolo divenire come il maestro (v. 40), dopo aver assimilato le sue direttive e completato il suo percorso di apprendimento alla sua scuola. Il discepolo, pertanto, deve essere ben formato, perché la sua vita non sia in dissonanza con il messaggio che proclama.

Il pericolo dell’ipocrisia

In caso contrario, non potrà avere l’ardire di correggere il fratello o la sorella, tentando di estrarre dall’occhio altrui la pagliuzza, quando, invece, il suo è compromesso dalla presenza di una trave. L’immagine, di per sé iperbolica (troppo forte), riguarda il pericolo dell’ipocrisia, che rischia di compromettere l’esercizio della correzione fraterna. L’ipocrita è colui che non sa discernere i segni della signoria divina nel tempo presente e resta irretito nei lacci di una spiritualità legalista.

Si coglie una continuità di senso tra le due immagini della guida cieca e del fratello ipocrita: in entrambi i casi, infatti, i soggetti non possono espletare i loro incarichi nel contesto comunitario; la guida, così come la correzione e la riconciliazione fraterna, sono regole basilari per la comunità.

Al contempo, si tratta di impedimenti superabili: se il discepolo matura e fa proprio l’insegnamento del maestro, può a sua volta divenire guida per gli altri; così, chi si propone di emendare la condotta altrui, badi che il suo occhio non sia ferito dalla trave del peccato o dell’orgoglio, ma sia purificato dalla grazia sanante di Dio per poter estrarre dall’occhio del fratello o della sorella la pagliuzza della colpa.

I frutti dell’albero

E’ necessario, pertanto, assumere una condotta di vita che sia ispirata alla coerenza: l’albero buono non può produrre un frutto marcio, inutilizzabile, così come è impossibile che un albero marcio generi frutti buoni.

Ne consegue che, come la qualità di un albero può essere apprezzata solo dalla bontà dei suoi frutti, così non v’è altro modo di valutare la qualità di un uomo e di una donna se non dalla sua parola. Il termine “frutto” può essere inteso anche in chiave simbolica, in riferimento alla condotta di vita. Giovanni Battista invitava le folle che si recavano presso di lui a “fare frutti degni di conversione”, perché “ogni albero che non porta frutto buono” è destinato a essere reciso nel fuoco.

Non è pertanto lecito attendersi di raccogliere fichi dalle spine, né di vendemmiare uva da un rovo: le attese del raccolto sono commisurate alla natura dell’albero o della pianta. Se i frutti palesano la qualità dell’albero, le parole dell’uomo e della donna rivelano il suo cuore. La bocca non si esprime in maniera autonoma, ma è coordinata con il cuore, che nella tradizione biblica simboleggia la persona nell’unità della sua coscienza, intelligenza e libertà.

Il cuore è il tesoro intimo in cui ognuno di noi sceglie, progetta, decide. In questo senso, solo la qualità dei discepoli e discepole può rivelare la bontà o la malvagità del maestro/a, cui è affidato il compito di guidare la comunità.

Prima di “correggere” gli altri dobbiamo chiederci se la nostra vita è proprio specchiata come si vuole far credere o se c’è qualche grossa trave che sta viziando il nostro comportamento e il nostro giudizio. Cominciamo a rimuovere lo sporco che ci portiamo dentro con tanta naturalezza e poi potremo anche avanzare qualche critica a quelli che ci vivono accanto.

Se proprio vogliamo emettere un giudizio, una valutazione “per amore della verità”, adottiamo un criterio molto efficace. Se hai davanti a te un albero non fermarti a considerare il suo aspetto: i rami ricchi di fogliame, i fiori che esibisce. Cerca i frutti! Sono i frutti a dirci se quell’albero è buono o cattivo. Non fidiamoci della prima impressione!

La persona che ci sta davanti ha un’ottima presenza, sa parlare molto bene, attira su di sé l’attenzione per la sua intelligenza, la sua vivacità, la sua determinazione. Ma proviamo a vedere da vicino: dove lavora, nella sua famiglia, nel vicinato. E’ arrogante, prepotente, vuole averla vinta sempre lui o lei? Oppure sa collaborare con gli altri, li ascolta anche se la pensano diversamente da lui? E’ onesto, competente, si dimostra generoso oppure la sua parlantina copre i suoi difetti? Se proprio devi valutare qualcuno, vai all’essenziale.

Gesù non vuole che i suoi discepoli siano smarriti, disorientati, in balìa del primo imbonitore. Non basta agitare crocifissi o rosari e neppure esibire un vangelo per essere cristiani. A contare sono i gesti, le scelte, i comportamenti: sono conformi veramente alle parole di Gesù?

Il Capocordata.

Bibliografia consultata: Landi, 2022; Laurita, 2022.