La parabola del seminatore: “chi ha orecchi, ascolti”

Vale la pena seminare, nonostante gli uccelli voraci, il sole cocente, gli arbusti spinosi che ostacolano la crescita della vita

Il Capocordata in montagna

Il Capocordata

Il capitolo 13 del Vangelo di Matteo è costituito da alcune parabole tra le quali la più famosa è quella del seminatore (Mt. 13, 1-23) che ascolteremo in questa domenica. La parabola del seminatore è una delle pochissime che hanno ricevuto già un “titolo” nel vangelo (v. 18) e che è accompagnata da una spiegazione (vv. 18-23).

La parabola

La parabola in sé è semplice e complessa allo stesso tempo: semplice nella struttura costituita dai destini del seme caduto in diversi terreni, complessa dalle immagini usate, che non sono di immediata comprensione.

Il primo tipo di terreno “la strada” (v. 4), come tutti i primi tre, manifesta un destino “tragico” per il seme, sebbene questa tragicità non sia dovuta a una volontà del seminatore che non sembra preoccuparsene. Sulla strada il seme diventa mangime per gli uccelli, e non può, quindi, realizzare la sua funzione di diventare pianta. Il destino del seme caduto su un terreno sassoso (v. 5) è ugualmente negativo: l’avere poca profondità di terreno è la ragione per cui può germogliare subito ma diventa la sua rovina nel momento in cui la stessa scarsità non permette la crescita delle radici che gli avrebbero permesso di continuare a nutrirsi anche in periodo di siccità.

Torna a essere particolarmente sintetica, e quasi brutale, la descrizione del destino del seme caduto in mezzo ai rovi (v. 7), la cui crescita è fatale per il seme che non può germogliare liberamente e si trova “soffocato”. La quarta parte del seme cade nella “terra buona” (bella) (v. 8) e per questo può portare frutto, un frutto che può variare tra il buono (il trenta) e l’eccezionale (il cento).

L’espressione con cui si conclude la parabola: “Chi ha orecchi, ascolti” (v. 9), è un’esclamazione, un grido, quasi un perentorio invito all’ascolto vero, profondo, che funga da premessa a un cambiamento di vita. E’ evidente come questa espressione abbia due funzioni: invitare all’ascolto e sottolineare l’universalità del messaggio: sono chiamati ad ascoltare tutti coloro che sono dotati di orecchie, quindi implicitamente tutti.

La domanda dei discepoli

La domanda dei discepoli non verte direttamente sulla parabola appena ascoltata, ma sul perché Gesù parli in parabole alle folle (v. 10). E Gesù in risposta: “Perché a voi è dato conoscere i misteri del regno dei cieli, ma a loro non è dato” (v. 11). Questo passo risulta abbastanza complicato: a una prima superficiale lettura parrebbe che Gesù si riferisca a una sorta di cristianesimo ristretto a pochi e dal quale gli altri sono esclusi, il che sarebbe particolarmente problematico nel contesto dell’insieme dell’annuncio di Gesù.

L’espressione “a colui che ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a colui che non ha, sarà tolto anche quello che ha” (v. 12) esprime come dall’accoglienza del regno di Dio derivi un’abbondanza sempre maggiore della grazia. Così nella nostra parabola, l’accoglienza del Signore da parte dei discepoli permette loro di crescere nella sua comprensione ogni giorno.

La duplice ripartizione espressa dal “voi” (i discepoli), “loro” (le folle), esprime una scelta “vitale” di campo che non lascia molta possibilità di situazioni intermedie, ed è rafforzata dall’uso della citazione del profeta Isaia (6, 9-10). Nella nostra parabola, il brano di Isaia ha la funzione di mostrare la necessità di comprendere, bene e rapidamente, l’insegnamento di Gesù a diventare “suoi discepoli” e non più parte di una folla indistinta per poter “conoscere i misteri del regno dei cieli” (v. 11) e farne parte.

Anche nel brano odierno, troviamo una sorta di preferenza da parte di Dio per alcune categorie di persone: quelle che ascoltano e accolgono la parola del Regno. Si tratta di una preferenza, non di una esclusività dovuta a un “capriccio” di Dio Padre. E’ altresì importante sottolineare come la distinzione dipenda dal comportamento, dalla volontà degli uomini, anziché da una volontà di escludere da parte di Gesù o del Padre.

La spiegazione della parabola

L’espressione “ascoltate la parabola del seminatore” (v. 18) richiama l’aspetto attivo, vitale del verbo biblico “ascoltare”: Gesù spiega la parabola ai discepoli ma allo stesso tempo li invita a realizzarne l’insegnamento. Il seme caduto sul terreno buono rappresenta “colui che ascolta la Parola e la comprende” (v. 23). A coloro che sono stati già in grado di accogliere i doni di Dio (“i piccoli”), ne saranno dati sempre di più. Il seme seminato dal seminatore, la Parola del Regno, è sia fonte di vita nel terreno buono, sia un ammonimento in vista di un giudizio, poiché dalla sua accoglienza in un contesto “fertile e fruttuoso” dipende la salvezza dell’uomo.

La fiducia nel seme buono

Ci mettiamo nei panni dell’ascoltatore che sente il racconto della parabola: comprende che vale la pena seminare, nonostante gli uccelli voraci, il sole cocente, gli arbusti spinosi che ostacolano la crescita della vita; il guadagno c’è e grande. Ammiriamo Gesù che continua a predicare: gli scribi lo criticano, i farisei lo accusano, i potenti lo guardano con sospetto, e lui continua a predicare. Eppure, questa è la cosa da fare, perché seme e terreno sono fatti l’uno per l’altro; che il seme senza il terreno rimane inutile e il terreno senza seme rimane infecondo.

Beato quel seminatore che non si è stancato di seminare, che ha continuato a gettare seme buono, a perdere tempo per seminare bene, che non si è lasciato fiaccare dagli insuccessi. La parabola è per le folle, perché imparino ad ascoltare; è per i discepoli, perché non smettano di predicare. Serve oggi, per aprirci alla Parola, serve per il futuro perché possiamo riscoprire la Parola nella sua memoria. Suppone la ricca potenzialità del seme e del terreno, della Parola di Dio e del cuore umano e scommette sul loro incontro.

Il Capocordata.

Bibliografia consultata: Busia, 2023; Monari, 2023.