Religione, Cristo Re crocifisso

di Il capocordata

La storia della salvezza, cominciata da Dio con gli uomini (il re David), è portata a termine con Cristo, ed evidenzia il posto centrale che vi occupa la croce di Gesù (Lc. 23, 35-43). Ecco allora perché la speranza della restaurazione del regno di David non si è compiuta con l’intronizzazione di un messia terreno, ma con quella di un Salvatore crocifisso. Cristo in croce è il vero re: non un potente monarca di quaggiù, ma un Signore umiliato e ridotto all’impotenza per aver amato i suoi fino all’estremo limite dell’amore. E’ un re che esercita la sua libertà nel servire; l’unico suo potere è amare fino alla morte. La sua salvezza non è quella che si attende l’uomo: è quella di un Dio che si fa condannare alla nostra stessa pena, pur di stare con noi. Questa sua regalità rivela la grazia e la misericordia di Dio: è il Figlio uguale al Padre, che non giudica, non condanna, perdona e dona la vita per i fratelli. Egli respinge come tentazioni le nostre attese di salvezza, basate su segni di forza e di potenza, che moltiplicherebbero quel male dal quale vuole strapparci.

“Crocifissero con lui (due) malfattori”. Tale termine sottolinea il contrasto con il “Giusto”, che subisce il suo destino senza avere fatto nulla di male. Tuttavia, c’è solidarietà totale tra il Giusto e i malfattori. Mentre il popolo stava a vedere, i capi invece scherniscono Gesù, come pure i soldati romani. “C’era anche una scritta sopra il suo capo: questi è il re dei Giudei”: l’accostamento con il sarcasmo dei soldati dà così all’iscrizione della croce un carattere di derisione non tanto quello di indicare la colpa di Gesù. Tutto l’insieme dà l’impressione di preparare al dialogo che sta per aver luogo tra i malfattori e Gesù.

Il colloquio con i malfattori (vv. 40-43)

Prima sono i capi dei giudei a deridere Gesù, poi i soldati romani, infine uno dei malfattori: anch’egli dice al Cristo di salvare se stesso “e anche noi”. Tutti vogliamo un messia che salvi se stesso, solo perché vogliamo salvare noi stessi. Alle ingiurie di uno dei malfattori, il “buon ladrone” risponde con un rimprovero: “Neanche tu hai timore di Dio, benché condannato alla stessa pena? Noi giustamente…egli invece non ha fatto nulla di male”. Egli vuol dire che di fronte alla morte, la maledizione e l’oltraggio devono cessare; c’è più spazio solo per il timor di Dio, Signore della vita e della morte; siamo implicati gli uni con gli altri in uno stesso destino e non possiamo scioglierci da questa solidarietà. In più, aggiunge che “noi” subiamo una giusta punizione, mentre Gesù soffre ingiustamente. La sua croce è ingiusta, perché lui è giusto e passò tra noi facendo del bene. Ma perché è qui in croce, vicino a me, giudicato e abbandonato da tutti? Lui è qui con me perché io possa essere con lui.

Noi sentiamo solamente dalla bocca del “buon ladrone”, per l’ultima volta nella vita di Gesù, questa costatazione obiettiva già formulata solennemente a tre riprese da Pilato nel corso del processo: “Non trovo nulla di colpevole in quest’uomo”. Dopo la morte di Cristo, il centurione, in un nuovo contrasto con le ingiurie precedenti, glorificherà Dio e dirà: “Realmente quest’uomo era giusto!”.

Così attraverso tutto il racconto di Luca, viene resa testimonianza alla giustizia di Gesù e alla sua innocenza. Nel suo secondo intervento, il buon ladrone si rivolge direttamente a Gesù e gli domanda, con grande fiducia, di ricordarsi di lui nel suo regno. Gesù risponde: “In verità ti dico, oggi sarai con me nel paradiso” (v. 43). Nessun uomo aveva ancora ricevuto da parte di Gesù questa garanzia strettamente personale di vivere con lui nel paradiso. Ma “ora” avviene proprio questo, nell’ora in cui tutta l’opera di Gesù sfocia nella sua consumazione. Gesù fa una promessa non per un futuro indeterminato, ma per “oggi”. Il giorno della sua morte sarà anche quello del suo ingresso in paradiso, luogo della beatitudine. Oggi termina il tempo dell’attesa e della speranza. Oggi la morte appare ormai vinta; il Padre opererà quella salvezza che faceva sghignazzare i nemici di Gesù.

“Sarai con me nel paradiso”. Tu sarai con me, perché io, l’Emmanuele, sono con te. Tu non sei stato con me, sei fuggito lontano. E io sono venuto lontano, fin qui sulla croce, perché tu possa stare con me. Colui che, unito al Cristo nell’umiliazione e amarezza della morte, ripone la sua speranza in Gesù può essere sicuro della sua misericordia. A partire dalla comunione nella morte, egli si vede chiamato alla comunione di vita con lui. Così questo buon ladrone diventa il portavoce della speranza e il modello di tutti gli uomini che si trovano di fronte alla morte. La preghiera che essi rivolgono a Gesù, di non abbandonarli nell’oblio ma di ricordarsi di loro, sarà ugualmente esaudita: essere con lui, nella sua vita e nella sua gloria.

La parola “paradiso” designa la dimora celeste dei giusti. Solo i giusti entrano nel “paradiso”, il soggiorno dei beati, per viverci con Dio. Gesù promette al “buon ladrone”, per quello stesso giorno, la comunione con lui nel luogo della beatitudine. Questa promessa è il festoso messaggio della forza liberatrice della morte di Gesù, il messaggio della speranza che aleggia sulla morte del discepolo. La vocazione di “salvatore” appare sin dall’inizio della vita del messia; egli vi rimane fedele fino alla fine. Morire fissando su Cristo il proprio sguardo e la propria speranza, questa è veramente la “salvezza”, la liberazione dalle tenebre e dalla morte. L’uomo che per primo ha realizzato ciò, in un’ora eccezionale, diventa così un segno pieno di promessa per tutti coloro che verranno in seguito. Il morire in comunione con Gesù porta, in virtù della sua promessa, alla comunione con lui nella vita.                                                                                          

Bibliografia consultata: Trilling, 1973; Fausti, 2011.

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