Grazie: una parola in disuso

Il dono ci rimanda al Donatore?

Nella 28^ Domenica del Tempo ordinario ascolteremo il vangelo della guarigione dei dieci lebbrosi (Lc. 17, 11-19). Gesù è incamminato nel viaggio verso Gerusalemme, verso la sua morte e la sua glorificazione. All’entrata di un villaggio, poco importa quale, si fermano alcuni lebbrosi a distanza da Gesù e dal gruppo dei suoi discepoli: così, infatti, prevedeva la legislazione allora vigente del Levitico (13, 9), alla quale si conformerà anche Gesù inviandoli dai sacerdoti. Rivolti verso Gesù essi gridano forte: ”Gesù, maestro, abbi pietà di noi!” (v. 13). E’ ammirevole la fede di questi poveretti: le quattro parole della loro preghiera hanno una ricchezza spirituale che nessun commento può rendere pienamente.

“Gesù”. Se la fede consiste nell’incontro di due persone, nel dialogo dall’io al tu, qui la fede dei lebbrosi si esprime perfettamente: Gesù e noi, (il noi del gruppo dei dieci lebbrosi). Chiamare per nome significa avere un rapporto amichevole. Questo modo di rivolgersi a Gesù con il semplice vocativo del suo nome, è molto raro nel Nuovo Testamento. In ogni caso, tuttavia, esso viene invocato per ottenere la salvezza, non solo dai mali terreni ma anche con l’entrata “in paradiso” o nel Regno di Dio che già è in mezzo a noi. Infatti, l’angelo aveva detto a Maria: il suo Nome è “Gesù” (= Dio salva), perché salverà il suo popolo dai suoi peccati. Questa preghiera dei lebbrosi è diventata la “preghiera di Gesù” per la chiesa d’Oriente o anche la “preghiera del cuore”: “Signore Gesù, abbi pietà di me peccatore”; preghiera molto semplice, che il monaco o il fedele ripete lungo la sua giornata e la sua vita, seguendo il ritmo della respirazione (mentre si inspira si mormora “Signore Gesù”, quando si espira si dice “Abbi pietà di me, peccatore).

“Maestro”. Solo nel vangelo di Luca troviamo questo titolo per rivolgersi a Gesù proclamando la sua onnipotenza. Questo vocativo sulle labbra dei lebbrosi assume un significato fortissimo: lo rivolgono a colui che è il padrone degli elementi naturali, a colui il cui nome comanda alle potenze infernali.

“Abbi pietà di noi”. E’ il grido della miseria verso chi può alleviarla. Con questo grido si fa appello a Dio, perché ci doni il suo amore, la sua grazia. Così Gesù trova la fede in questi infelici, una fede sufficiente per operare un miracolo in loro favore.

La guarigione (v. 14)
Secondo la legislazione allora vigente, toccava al sacerdote sia constatare e diagnosticare la malattia che riconoscerne la guarigione. Dunque, l’ordine di Gesù di andare a presentarsi ai sacerdoti equivale a una promessa di guarigione. Pare che Gesù voglia mettere alla prova la loro fede, perché non li guarisce subito. I lebbrosi immediatamente danno fiducia alla parola di Gesù, come ogni buon discepolo deve fare. Siamo mondati dall’obbedienza alla sua parola, che ci ordina il santo viaggio della sequela. Non è che prima siamo giusti e poi possiamo seguire Gesù: la salvezza è una conseguenza della sequela. E mentre essi andavano furono guariti: ammiriamo la discrezione di Gesù che viene incontro alle necessità materiali e spirituali dell’uomo. Contrariamente agli operatori di miracoli del mondo greco o giudaico, i quali curano la messa in scena e accumulano sempre particolari curiosi e persino grotteschi. Vale la pena notare che Luca si accontenta di segnalare il miracolo come di sfuggita, perché gli interessa di più la reazione provocata da questa guarigione.

La salvezza per lo straniero (vv. 15-19)
Uno di loro tornò da Gesù per ringraziarlo: era un Samaritano. Questo uno solo è figura della Chiesa: infatti questo Samaritano è venuto a ringraziare Gesù e il gesto in sé non manca di dignità. Tuttavia, all’unico credente si chiede conto degli altri nove: “e gli altri nove dove sono?”. Sono i non credenti che non siedono ancora alla mensa. Dall’Eucarestia nasce la missione. Ma chi è venuto a ringraziare il Samaritano? Almeno un profeta. Forse “il” profeta, cioè il Messia atteso. In ogni caso dona la sua fede a quest’uomo. Bisogna sforzarsi di comprendere ciò che Luca dice della fede del Samaritano, anche se gli attribuisce dei sentimenti che solo più tardi avrà potuto provare coscientemente. Tuttavia le sue azioni sono quelle che si rivolgono a Dio.

“Si gettò ai piedi di Gesù”: la prostrazione sino a toccare terra con il proprio viso è il segno di un profondo rispetto; nel Nuovo Testamento si fa soltanto a Dio. “Per ringraziarlo”: questo verbo ha sempre Dio per fine. Si tratta di un atto liturgico, l’eucarestia, che non può avere che Dio per termine. Solo il Samaritano viene a rendere gloria a Dio: l’evangelista Luca vuole certamente insistere che ormai l’unico luogo dove si possa rendere gloria a Dio in modo valido è vicino a Gesù.

“Andate a presentarvi ai sacerdoti”: ma Gesù dichiara di essere stato capito solo da colui che è ritornato e non è andato dai sacerdoti. Forse Luca vorrebbe insinuare che il solo vero sacerdote è Gesù?

Ma chi è il Samaritano per Gesù? E’ uno straniero, cioè un pagano, e solo questo straniero, il pagano, riconosce in Gesù l’inviato di Dio. Quest’uomo diventa il simbolo dei pagani che entrano nel regno di Dio prima degli ebrei perché hanno saputo riconoscerlo. La missione ai pagani fa parte integrante della missione di Gesù: ma Egli l’ha solo annunciata e inaugurata, ora tocca alla Chiesa portarla a compimento.

La salvezza attraverso la fede (v. 19)
“La tua fede ti ha salvato”: ma non l’avevano tutti e dieci la fede? Il miracolo infatti presuppone la fede, ma deve anche aumentarla! Il miracolo ha permesso al Samaritano di accostarsi ad una fede più profonda che gli donerà la salvezza, non solo la guarigione fisica. Noi siamo salvati per la fede, e non dall’osservanza minuziosa della Legge come pensavano i farisei. Tutto è grazia: non si è salvati perché si fa qualcosa, ma perché si lascia che Dio faccia qualcosa in noi; non fare ma credere! E non basta ricevere la salvezza, bisogna ringraziarne Dio, o meglio renderne gloria a Dio. La salvezza, anche se già donata a tutti, è effettiva solo se è accolta dalla fede. Questa consiste nell’accorgersi del dono e volgersi al donatore. La salvezza è il nostro rapporto “eucaristico” con Gesù. Chi l’ha scoperto, è responsabile davanti a Lui di tutti i fratelli: diventa angelo, cioè annunciatore.

Bibliografia consultata: Charpentier, 1976; Fausti, 2011.

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