“Nostalgia”: Mario Martone fa un film di puro cinema

Felice Lasco torna nel quartiere di Napoli della Sanità abbandonato improvvisamente e nascostamente 40 anni prima. In cerca del passato, per esorcizzarlo o redimerlo

NOSTALGIA
Film – Italia Francia 2022, durata 117’. Regia di Mario Martone. Sceneggiatura di M. Martone, Ippolita Di Majo. Con Pier Francesco Favino, Francesco Di Leva, Tommaso Ragno, Aurora Quattrocchi. Dal romanzo di Ermanno Rea. Al cinema.

Nostalgia è un termine che il tempo e l’uso hanno diluito. Ma alla lettera, guardando al greco, è “dolore del ritorno”. Dolore? Ma non era desiderio, privazione di qualcosa?
Provvede il bellissimo film di puro cinema di Mario Martone, in competizione a Cannes dopo 27 anni (L’amore molesto), a illustrarcene le pieghe nascoste, il significato cangiante.
A Cannes, unico italiano in concorso, Martone ha portato questo film – diretto ed elusivo a un tempo – scritto con la compagna di vita e lavoro Ippolita Di Majo, traendolo dall’ultimo romanzo di Ermanno Rea.
Il film – sono molti in disaccordo con la giuria – non ha vinto niente (a parte l’essere designato dal SNCCI Film della Critica, insieme con Esterno notte di Bellocchio). Ma a fine proiezione aveva registrato 9 minuti di applausi (anche se purtroppo queste ovazioni cominciano a diventare un manierismo a buon mercato, un rito atteso anche da chi lo tributa; ma qui il merito c’è tutto). Ne sono state messe in circolazione 450 copie.

La storia

Felice Lasco è andato via sedicenne dalla Sanità – quartiere difficile di Napoli – e dall’Italia. Improvvisamente; piantando madre amico del cuore e abitudini. Lo vediamo tornare dopo 40 anni, sospinto dalla moglie egiziana ad andare a trovare la madre anziana e malata; ma forse anche per riprendere le fila di se stesso. E riscattarsi da qualcosa (la fuga? la viltà dei sentimenti?), come capiremo. Ritrova persone, senso, pezzi di passato che vogliono sepoltura. Primo fra tutti, l’abbandono del suo amico del cuore Oreste, ora ritrovato spietato capo della camorra locale, innominato, semplicemente ’o Malommo.
Quel mondo, giorno dopo giorno, gli (ri)entra dentro ma anche lo (ri)assorbe. E lui si abbandona a questa corrente onirica; ma i nodi vanno sciolti, a qualunque prezzo.

Tommaso Ragno, nel film Oreste Spasiano, “‘o Malommo”

“C’è il labirinto, e c’è la nostalgia, che sono il destino di tanti, forse di tutti”

Chi, come chi vi scrive, è nato e cresciuto a Napoli con cui mantiene un forte cordone ombelicale, è risucchiato da questo film quasi quanto Felice lo è dalla natìa Sanità. Dove il film è girato e ambientato: un quartiere extra moenia della città, lontano dal mare, un’enclave a parte, un luogo difficile e promiscuo (fondaci infernali e palazzi settecenteschi dalle aeree scalinate) che oggi è guardato da tutti come laboratorio di una possibile nuova vivibilità, grazie al lavoro di un parroco illuminato e coraggioso – a cui con altro nome il film fa chiaramente riferimento – e di un manipolo di ragazzi e di imprenditori del quartiere che stanno dando tutto per dissotterrarne i tesori e cambiarne l’immagine.
L’occhio è tutt’altro che turistico. Ma non è neanche reportage, non c’è giudizio, né denuncia; non è un film di impegno civile. Diseducati da come si fa adesso, cerchiamo di ricondurre il tutto al cliché della Napoli nera. Invece siamo immersi in un miscuglio ipnotico di ferinità e dolcezza, che si sottrae a conclusioni facili. “Abbiamo finito per girare l’ultima scena chiedendoci quale ne era il senso, e non l’abbiamo più trovato. Forse non c’era, forse non c’è. C’è il labirinto, e c’è la nostalgia, che sono il destino di tanti, forse di tutti” (dall’intervista a Martone sull’ultimo FilmTv).
L’occhio spaesato di Felice – e il nostro con lui – nella prima fase del film semplicemente si aggira, osserva, rintraccia, recupera. Lo spazio, l’umanità in cui i protagonisti sono immersi è coprotagonista; al punto da attirarlo in un sortilegio, trasformare il suo iniziale straniamento in un passivo, poi attivo abbraccio.

Favino

Pierfrancesco Favino in una delle scene iniziali del film

Qui emerge tutta la bravura di Pier Francesco Favino, sempre più affrancato dagli stereotipati ruoli leggeri di una volta; ormai un grande attore di livello giustamente internazionale; il nostro migliore, più versatile, più camaleontico.
Ascoltate come la sua parlata, inizialmente stentatamente italiana dopo tanti decenni passati fra Libano ed Egitto (Favino ha studiato arabo per questo; tipo Actors Studio), va via via trasformandosi, riassumendo la musicalità del posto (lui romano). Osservate come lo sguardo cauto e accigliato dei primi tempi si stempera in quel sorrisetto che alla fine suggerisce un nuovo stato di coscienza. E per quello stato Felice è pronto a dare ancora una sterzata alla sua vita, rinunciando a quanto al di là del mare aveva costruito.

Non è (solo?) un film su Napoli

Favino e Martone in una pausa della lavorazione. Ph.: Elio Di Pace

Ma il film venuto fuori da Martone (napoletano) non è (solo?) un film su Napoli, o meglio su quel quartiere: “volevo che il racconto fosse invece intriso di epicità, che andasse oltre i confini del luogo in cui è ambientato”, dice lui stesso. E’ una tentacolare e labirintica parabola umana senza confini geografici, ambientata in un luogo che anzi da regista avrebbe potuto connotare di più, e invece ha lasciato come sospeso: no Vesuvio, no golfo, no Pulcinella, no compiaciuto colore locale. Scorriamo fra immani pareti rocciose su cui si incastrano case; antichissimi muri, supportici, catacombe; potremmo essere in un Oriente o porto senza tempo del basso Mediterraneo. Tutto ha occhi, orecchie, tutto circola.

La cura degli attori

Senza buoni interpreti anche un film ben scritto si infiacchisce.
Qui il rischio non c’è. Di Favino abbiamo già detto.
Francesco Di Leva, fin qui notato prevalentemente nei ruoli criminali, offre una convincente interpretazione del parroco-trascinatore di S. Maria della Sanità. Brillìo degli occhi, gestualità adatta al suo gregge difficile.
Magnetico e luciferino, Tommaso Ragno è l’incarnazione sofferta d‘o Malommo Oreste Spasiano, un diavolo (angelo caduto?), boss temutissimo quanto disperato.
Nello Mascia, il guantaio Raffaele, qui non deve far altro che eguagliare se stesso nei tanti decenni di bel teatro che lo hanno visto al centro della scena.
E poi c’è Aurora Quattrocchi, la Madre. Commovente. Per sguardo e gesti luce delle più affascinanti scene del film; una per tutte lei portata a braccia dal figlio in una vasca, dentro un bagno metafisico: antro, terme, chiesa rupestre, dipinto rinascimentale. Al di là del minutaggio, la sua presenza aleggia timida, forte e quieta per tutto il film.

Pierfrancesco Favino e Aurora Quattrocchi in una delle scene più intense

La nostalgia

Dolore del ritorno”, dice dunque l’etimologia. E visto il film capiamo perché: tornare può essere dolce, anche se non propriamente voluto; ma c’è chi pensa, come Erri De Luca, che “per chi parte non c’è terra di ritorno”: il tempo cambia le cose, impedisce la replica. Prenderne atto è dolore, anche quando qualcosa ci induce a restare.

La locandina del film