Religione, il Cristo di Dio, il Figlio dell’uomo

di Il capocordata

Il brano evangelico (Lc. 9, 18-24) che ascolteremo domenica XII del Tempo ordinario, descrive un periodo importante della vita di Gesù: la confessione di Pietro, il primo annunzio della Passione e “i detti” di Gesù che sottolineano le condizioni richieste per seguirlo. Da questo momento in poi, Gesù è in cammino verso Gerusalemme dove sarà “tolto” da questo mondo. La “via del Signore” verso Gerusalemme si presenta dunque come un’ascesa verso la Passione.

L’evangelista introduce il nostro brano con la descrizione di Gesù che prega in disparte (v. 18).  Luca omette l’indicazione topografica di “Cesarea di Filippo”. Aggiunge invece il luogo teologico da cui ha inizio il cammino, la sua sorgente: “l’essere in preghiera”. Questo elemento della preghiera solitaria di Gesù diventa uno dei temi dominanti del suo Vangelo; tutti gli avvenimenti importanti della vita di Gesù hanno luogo in un’atmosfera di preghiera, come pure riferisce parecchi ammaestramenti di Gesù concernenti la preghiera. La preghiera è il luogo solitario e intimo dell’amore di Gesù verso il Padre, quell’amore del quale è venuto a renderci partecipi. E’ il luogo dove incontra tutti i fratelli appunto perché presso il Padre. Questa preghiera nella solitudine con il Padre è il luogo dove lui ci interpella e si rivela. Finora era l’uomo che si interrogava su Gesù e lo interrogava: ora è lui stesso che prende l’iniziativa ed esige la nostra risposta; solo se gli rispondiamo inizia il dialogo e lui risponde.

La presenza dei discepoli, infatti, viene poi a completare il quadro del racconto. Gesù domanda a loro: “Chi dice la gente che io sia?” E i discepoli riferiscono che la gente identifica Gesù o col Battista o con Elia o con uno dei profeti antichi. Per la gente, Gesù è un profeta risorto. Tale risposta è importante, perché introduce al centro della rivelazione di Gesù, profeta morto e risorto. L’errore consiste nell’identificare Gesù con una figura del passato. L’aspetto positivo è che questo passato contiene la promessa di Dio e la sua parola di risurrezione. L’errore è quello di fermarsi al cartello indicatore senza seguirne l’indicazione.

“Ma voi, chi dite che io sia?”, Gesù ora vuol sapere cosa i discepoli hanno capito di lui. Il discepolo è costituito da questa interrogazione: non mette in questione Gesù e accetta di essere messo in questione da lui. Fino a quando siamo noi a porre le nostre domande, non avremo mai risposte circa la sua novità. Deve tacere la nostra domanda, per ascoltare la sua. Cessa così la nostra risposta e siamo in grado di accogliere la sua. Pietro risponde con una professione di fede messianica: “Tu sei il Cristo di Dio!”(v. 20). Pietro esprime la fede della Chiesa.

Gesù il Cristo

Formalmente Gesù non approva né riprova la confessione di Pietro; a giudizio dell’evangelista è pienamente valida: essa esprime la fede in Gesù come messia, unto dallo Spirito santo. Fin dalla nascita Gesù è il messia promesso. Perciò, nel corso della vita terrena, egli è unto dallo Spirito e agisce con la sua forza. Luca concepisce la messianicità di Gesù in stretta connessione con la sua filiazione divina: Gesù è Figlio di Dio in quanto è il messia.

“Egli sgridandoli ingiunse loro di non dire a nessuno questo” (v. 21). Sgridando i discepoli come i demoni che rivelano la sua identità, egli esorcizza ogni messianismo, anche giusto, perché parzialmente sempre sbagliato. Solo con questo esorcismo la fede si tiene sempre aperta alla rivelazione del mistero della croce. Diversamente cade nel laccio del tentatore, che ci muove con la paura della morte e ci suggerisce la tentazione: salva te stesso! Scendi ora dalla croce e ti crederemo! Il mistero della croce come via alla vita è lo specifico della sua messianicità, il pensiero di Dio contrapposto al pensiero dell’uomo. I discepoli lo capiranno lentamente, e solo dopo la Pasqua!

“Bisogna che il Figlio dell’uomo…(v.22). Gesù qui rivela il mistero del pensiero di Dio che l’uomo non può pensare né accettare. Il problema non è ormai se Gesù sia il Cristo di Dio, ma come lo sia! Egli è “di Dio” proprio perché non salva se stesso, ma perché dona se stesso per noi. Egli non è il Cristo scontato dell’attesa umana, ma il maestoso ed enigmatico “Figlio dell’uomo” che affronta il cammino del Servo del Signore: è la prima auto rivelazione piena di Gesù, il nocciolo della fede cristiana, il suo mistero di morte e risurrezione redentrice. Il “bisogna” indica il compimento della volontà di Dio, rivelata nella Scrittura. Tale volontà non è un arbitrio capriccioso: deve morire in croce per noi, perché ci ama e perché anche noi siamo sulla croce! La sofferenza del Servo, che ama il Padre e i fratelli, è il mistero di Gesù. La croce è il nostro male che lui si addossa perché ci vuol bene: è il suo perdersi per salvarci.

Gli “anziani”, i “sommi sacerdoti”  e gli “scribi”rappresentano rispettivamente l’avere, il potere e il sapere: ricchezza, vanagloria e superbia sono le tre maschere del nemico e le tre apparenze del frutto proibito (buono, bello e desiderabile). Esprimono il distillato del pensiero dell’uomo, nel tentativo di salvarsi dalla sua nudità non più accettata. Questa paura del limite è l’origine di ogni perdizione, perché lo porta a “impadronirsi” delle cose, delle persone e di Dio stesso. Per riempire il suo vuoto, allunga la mano su tutto: tutto prende, mangia, uccide e travolge nella sua morte. Gesù è il contrario del vecchio Adamo e ci rivela il volto di un Dio che tutto dona per amore all’uomo sua creatura. Per questo il potere lo rigetta e poi lo uccide. Ma l’ultima parola non spetta alla morte, bensì a colui che ha detto la prima, che fu creatrice. Così la vita sarà il dono di Dio al suo Servo fedele, sua risposta all’uccisione del Figlio che noi, infelici, operiamo.

“Se qualcuno vuole venire dietro di me, sollevi la sua croce ogni giorno” (v. 23). E’ l’atto di prendersi sulle spalle il “patibulum”, il braccio traverso della croce, per fare il viaggio fino al luogo dove già è infisso il palo. La “propria” croce è quella che non si vuole, ma che non si può fare a meno di portare, perché nostra, che ci siamo fatti noi. Sollevare la croce è farci carico del nostro male, che giustamente ci siamo guadagnati, come dice uno dei due malfattori. Così siamo vicini alla croce di chi si è fatto vicino fino a quel punto per offrirci il suo Regno.                                                                                                                               

Bibliografia consultata: Denaux, 1970; Fausti, 2011.

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