Se Gatsby resiste alle brutture del cinema

La produzione del film non ha badato a spese ma non quantifica pubblicamente il denaro speso in pubblicità

E nel 2013 il mondo scoprì Gatsby o meglio: Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald grazie a Baz Luhrmann. Sì, proprio lui, quello di Ballroom – Gara di Ballo.

Il regista australiano che ha gigioneggiato con lustrini e paillettes riadattando Romeo e Giulietta ai giorni nostri, complici gli allora giovanissimi Leonardo Di Caprio e Clare Danes, infelice mistura tra un videoclippone dance e una telenovela sudamericana, per poi proseguire con il melodrammatico polpettone musicale in corsetti, giarrettiere e rossetti vermigli Moulin Rouge.

Stavolta ci riprova mettendo in scena il romanzo di Fitzgerald. Come se non fossero bastate le precedenti versioni: quella muta del '26, una del 1949 e la sciagurata versione diretta dal trascurabilissimo Jack Clayton, di cui furono protagonisti i wasp Robert Redford e Mia Farrow (pre-relazione Woody Allen)che, seppur eccellenti attori, non salvarono né il film del 1974 dalla banalità né il povero casuale fruitore dalla catalessi.

Di sicuro non mancheranno sequenze ridondanti, scenografie sontuose, abiti griffati e gioielli preziosi, scintillii e canzonette a profusione.

Grazie a Luhrmann toccherà anche subirsi il ritorno dei favolosi anni Venti, gli anni ruggenti, con al seguito ragazze che imiteranno lo stile delle flappers, mise vintage a ricordarci di quant'era bella Zelda Fitzgerald e quanto era originale e pazza e vai con abiti plissettati e la New York scintillante dell'età del Jazz.

Però proprio di quest'ultima e del jazz, il film non contiene alcuna traccia. Infatti, l'intera opera di Luhrmann è stata girata in Australia e include nella, già scadente (se escludiamo Lana Del Rey), colonna sonora (supervisionata dal rapper e produttore discografico Jay-Z nonché marito di Beyoncé) una pessima cover del bellissimo brano: Back to Black dell'indimenticabileAmy Whinehouse, reinterpretata da Beyoncé e Andrè 3000. Soltanto per questo, Luhrmann e i due cantanti, andrebbero denunciati con accusa di oltraggio al pubblico pudore (delle nostre orecchie).

La produzione del film non ha badato a spese, ma non quantifica pubblicamente l'ingente somma di denaro investita nel battage pubblicitario.

Forse Luhrmann pensa che in un'epoca di crisi economica si abbia bisogno di sfarzo e ricchezza ostentati, ma si sbaglia. Jay Gatsby raggiunge potere e ricchezza mosso dall'unico desiderio di conquistare il suo amore perduto: Daisy Fay.

Luhrmann utilizza il suo circo barnum, frenetico, chiassoso e vacuo, per conquistare gli spettatori più giovani, come sottolinea David Denby, scrittore e critico del New Yorker. Tuttavia, ritengo che il giovane che si imbatterà in questo capolavoro non avrà difficoltà a leggerlo senza bisogno di edulcorate esche circensi o di ulteriori ausili.

Ma allora cosa resta del romanzo di Francis Scott Fitzgerald in questo scintillante e costosissimo film?

Di quell'afflato pieno di un sentimento ineffabile e inafferrabile in cui ci siamo persi tutti noi, vecchi lettori, che abbiamo amato e riconosciuto il desiderio di Gatsby per Daisy?

Nella sua illusione, che poi è anche quella del suo autore e di quell'American Dream che stava per essere soppiantato dalla crisi economica del '29, ci siamo noi, tutti quelli che, come Gatsby, hanno creduto nella luce verde, pensando di poterla raggiungere e, invece, inesorabile è scomparsa alle nostre spalle.

E Fitzgerald che di illusioni perdute si era nutrito lo racconta nel suo capolavoro intriso di 'modernità', quella stessa che non ha bisogno né di lustrini né di sequenze in 3D per essere sempre 'attuale' e che fece scrivere a Thomas Stearns Eliot in una lettera all'autore: " Mi sembra che sia il primo passo che la letteratura americana abbia fatto da Henry James".

Complesso, articolato, pervaso da una sottile poesia, Il Grande Gatsby non necessita di un'altra brutta trasposizione cinematografica.

* Articolo tratto da Huffington Post, per gentile concessione dell'autrice.

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