Edoardo Raspelli: “Non c’è più competenza”, la cucina italiana sta morendo. Ma è vero?

Edoardo Raspelli lancia anatemi contro le mode nella cucina e la tendenza a distruggere la nostra gastronomia

Edoardo Raspelli

Edoardo Raspelli

Edoardo Raspelli lancia anatemi contro le mode nella cucina e la tendenza a distruggere la nostra gastronomia, prendendo scorciatoie che possono crearle problemi. Ma ci sono cuochi e osti che non abbandonano la strada del passato proprio per continuare a guardare al futuro, consapevoli che ciò che è buono e fa bene, sarà sempre valido.

La cucina italiana non morirà mai

Sono anni che il critico di gastronomia Edoardo Raspelli lancia strali sui pericoli che corre la cucina italiana. “Finirà male – dice – Non c’è più competenza per il prodotto, si sceglie la comodità: nei locali arriva tutto già imbustato. E si punta troppo sulla fantasia. Il risultato? Piatti bellissimi con abbinamenti terrificanti. Recentemente mi hanno proposto un dolce con cioccolato e carpa cruda: fa schifo solo a pensarci. E poi non ne possiamo più di questi qui che ti raccontano la storia d’ogni ingrediente… Lasciateci in pace”

Raspelli fa parte della ormai non più folta schiera di critici d’annata, come i vini buoni, che hanno assistito alla nascita e alle crisi alternate della nostra gastronomia, partecipando spesso anche dal di dentro a queste battaglie, conducendole in prima persona e restandone a volte traditi o semplicemente disillusi. C’è molto marcio nella ristorazione italiana, è vero. Molti si approfittano del brand per sfruttarlo a fini commerciali, rifilando porcherie a chi non se ne intende. Ma le basi della cucina italiana sono solide e c’è ancora chi le conosce e le mantiene.

Raspelli nella sua carriera ha visitato più di 6mila ristoranti

Fu merito di Cesare Lanza se nel 1975 venne affidata a Raspelli la pagina della critica gastronomica sul Corriere d’Informazione, edizione serale del Corriere della Sera, che, logicamente, usciva al mattino. Affibbiava faccini neri ai ristoranti che non gli piacevano. Antesignano degli emoticons e delle forchette, cappelli o calici che oggi si spargono a volte con giudizio, a volte a pagamento. Le cose quando hanno successo è facile che si possano corrompere. Così sta succedendo alla cucina italiana, quella che vuole sfruttare la situazione.

Nel momento in cui diventa la più famosa e seguita al mondo è anche la più imitata (male); essa stessa indulge a scorciatoie che non le fanno onore. All’estero non fidatevi del brand Italia, lo si usa per contrabbandare piatti di cui non si conosce la ricetta. In molti casi piatti italiani abbondano nei menù stranieri, con storpiature ridicole, che già avvertono la persona competente del pericolo. Il mio principio è: mai ordinare un piatto italiano all’estero, se non conosci il cuoco. Meglio provare le pietanze del posto.

Pietanze, insegne, cuochi, vini: spesso di italiano c’è solo l’etichetta

E in Italia pure si commettono misfatti. Come acquistare gli ingredienti precotti o semilavorati di grandi distribuzioni francesi, come rinunciare a cucinare a vantaggio del crudo, facendolo passare per una tendenza, come lasciare entrare prodotti stranieri tipo il wagyu giapponese o l’asado argentino e brasiliano o la wok cinese o mischiare il sushi con i fritti da street food.

Sono tutti tentativi di correre dietro alle voglie mutanti di un pubblico ignorante, che va al ristorante -legittimamente- per divertirsi con gli amici e non per gustare qualità. Questo però non rafforza il brand della gastronomia italiana. Io non avrei alcun problema, anzi non ce l’ho proprio, quando trovo un parmigiano americano o della Boemia che è buono anche più del nostro. Non ho problemi se trovo una pizza margherita fatta come “diocomanda” in un altro Paese. Spesso dietro c’è la mano di un connazionale emigrato.

Il Made in Italy è il know-how, non il prodotto in sé

Quando il know-how della produzione italiana e gli ingredienti, anche locali, sono perfetti, il risultato è ottimo. La mia idea di Made in Italy è che si può difendere la conoscenza, la maniera in cui si realizza un prodotto, non ha senso difendere il prodotto in sé. Oltretutto chiamiamo Made in Italy prodotti che lo sono in minima parte.

Ogni cosa è imitabile, meno la conoscenza. Ci sono produttori italiani, o innamorati dell’Italia, che fanno formaggi, pani, vini, salumi, simili ai nostri, talvolta anche più buoni dei nostri. Se sai come fare, se i macchinari sono gli stessi, sei già a buon punto. Il latte buono si trova ovunque, le farine si importano e le carni buone, se sai come allevare l’animale, te le procuri in Canada come in Campania. I prodotti Italian sounding sono già adesso un volume di affari doppio dell’intero Made in Italy alimentare nostrano. È una guerra persa.

Meglio puntare sulla conoscenza e insegnare al mondo a fare i nostri cibi, a mangiare meglio. Sarebbe un business pazzesco: insegnanti, ristoratori, macchinari, tecnologie, corsi, scuole, visite in Italia per verificare cosa s’è imparato… invece di perdere tempo a bloccare i nostri connazionali che copiano il Taleggio.

Non ce lo deve dire una guida francese cos’è buono

Raspelli sostiene di avere 49 anni di carriera e di aver visitato 6mila ristoranti nazionali. Oggi dice di essere legato a pochi tra questi: Il pescatore a Canneto sull’Oglio, Philippe LéveillIé al Miramonti a Concesio, da Nadia a Clusane d’Iseo.

Non sono molti. Di ottima cucina -a mio avviso- se ne fa in tanti altri ristoranti italiani. Non è vero che siamo sull’orlo del precipizio. Ho conosciuto Raspelli quando lui conduceva Mela Verde per Mediaset e io ero capo autore di Linea Verde su Raiuno. Concordavamo su molti aspetti dell’agroalimentare e della gastronomia, soprattutto su quelli della tradizione regionale. Io ero allora spesso insieme a Beppe Bigazzi, con cui giravamo l’Italia e ci venne in mente di lanciare l’idea degli Osti Custodi.

Ossia di quei ristoratori o cuochi di osterie che si preoccupano di scegliere materie prime salubri e tipiche dei territori, con cui si preparano ricette che affondano nella notte dei tempi e riempiono gli occhi, le narici e lo stomaco di gioia infinita. In Italia, lo ha sempre sostenuto Beppe Bigazzi, le venti cucine di tradizione non saranno mai dimenticate e, alla lunga, vinceranno su qualsiasi moda e qualsiasi tendenza. Oggi l’associazione Osti Custodi c’è ancora, merito di Paolo Tizzanini in Valdarno.

Gli Osti Custodi difendono tradizione e qualità che altri producono o scelgono

La cucina stellata italiana, quando funziona, come quella di Massimo Bottura, Osteria Francescana di Modena, s’impone nel mondo. Come quella di Niko Romito, Il Reale di Castel di Sangro, che attinge a piene mani dalla tradizione, dalle materie prime di qualità, dal lavoro serio e meticoloso del contadino. Ecco che essere Osti Custodi, significa formare la parte centrale di una catena virtuosa che lega l’agricoltore al cliente, passando per il ristoratore. Si tratta di custodire una conoscenza, un sapere, una sapienza secolare e di tramandarla, con poche variazioni, giusto quelle dovute al tempo che trascorre e alla genialità di uno chef.

Un meccanismo che è in grado di determinare economia e scelte agroalimentari. Il cliente mettendo mano al portafogli sceglie un prodotto, una produzione, una qualità. Il ristoratore la sa valorizzare. Il contadino ha convenienza a produrla perché si è creato un mercato. Questa cosa ora la vedo nascere anche in Cile, in Perù, in Colombia, in Messico. La stessa passione per le tecniche antiche, per gli ingredienti delle culture indie, sparite con la conquista spagnola. Per anni sono vissuti con una non cucina di emergenza, una cultura imposta e ora questi popoli cercano la loro identità. Noi che ce l’abbiamo ben radicati, stiamo attenti a non perderla a vantaggio delle cineserie da esportazione, delle friggitorie, del sushi finto giapponese.

Terra Tradizione e Territorio: guardarsi indietro per andare avanti

Il motto di Raspelli a Mela Verde erano le “Tre T: Terra, Territorio, Tradizione. Bisogna guardarsi indietro per guardare avanti”. Esattamente lo stesso di Bigazzi. Raspelli è stato attaccato da suoi colleghi invaghitisi della cucina destrutturata che ormai deborda come spettacolo, più che cucina, nei ristoranti più quotati al mondo, dall’Alchemist di Rasmus Munk a Copenaghen, ad Alinea dello chef Grant Achatz di Chicago, oil Fat Duck di Heston Blumental nel Berkshire in Inghilterra o a Barcellona l’Enigma di Albert Adrià, fratello di quel Ferran che Raspelli distrusse nel 1999, chiamandolo “22 piatti di delusione”.

Non sono d’accordo con Raspelli. La cucina destrutturata di Ferran Adrià resterà nella storia e la sua influenza perdura ancora nella gastronomia internazionale. Dopo Ferran Adrià, andare al ristorante non è più la stessa cosa, non lo si fa per mangiare ma per vivere una emozione. Sono spettacoli, tanto che adesso ci sono ristoranti in cui al cibo viene abbinata una esperienza visiva (dei veri e propri video ideati appositamente) e a volte anche tattile e uditiva. Tutto questo ha più a che fare con le Cirque du Soleil che con una cena.

Tutte queste sifonate, niente da masticare fu un disastro. A El Bulli, in Catalogna, avevo visto l’inizio della fine della cucina spagnola, la stessa fine che farà quella italiana”, scrisse Raspelli del ristorante di Barcellona. Per me invece resta un faro nella gastronomia che attualmente continua a dettare la moda nel mondo. Sono evoluzioni che possono convivere con la tradizione. Essa stessa non è ferma, si evolve ugualmente, negli ingredienti, nelle tecnologie, nelle pratiche. C’è posto per tutti e due.

Da un lato ci sono i grandi chef, i grandi eventi spettacolo, dall’altra le basi, la storia, la sapienza di come confezionare un piatto salutare

Come consulente gastronomico per una importante società di Santo Domingo, mi chiedono di portare ai Caraibi chef che possano sedurre un pubblico internazionale, fatto di competenti appassionati americani, canadesi ed europei che qui nell’isola vivono o hanno una casa di vacanza. Sono riuscito a portare Massimo Bottura, Juan Roca, Virgilio Martinez, Jorge Vallejo, Rodolfo Guzman e recentemente Rasmus Munk. Ogni evento è stato un successo. Certamente la gente paga biglietti da 500 dollari a testa, per assaporare profumi e texture mai immaginate. Ma dobbiamo distinguere lo spettacolo gastronomico dalla vera cucina.

In Repubblica Dominicana questi eventi hanno il pregio di elevare la conoscenza gastronomica delle persone. Le quali poi nelle loro scelte quotidiane cercano piatti di qualità e salubri e li trovano solo nella ristorazione italiana o spagnola. Adesso però anche in qualche ristirante locale, caraibico, si sta evolvendo la maniera di cucinare i piatti locali, basati comunque su una offerta agroalimentare di vegetali e frutta di altissimo livello. È una rivoluzione che tocca tutta l’America Latina e che è molto simile a quello che accade da noi, quando un ristoratore si lega ad uno o a un gruppo di contadini affinché gli procurino cibi che i supermercati non hanno, perché tendono a standardizzare in basso la loro offerta.

La tradizione ha le sue eccellenze che anche i grandi chef amano

Nessuno di quei piatti potrà mai sostituire nel tempo la ribollita o la pappa col pomodoro di Paolo Tizzanini dell’Acquolina di Terranuova Bracciolini o la Carabaccia di Emanuela Vallini a Bibbona, o i piatti al tartufo bianco pregiato di Paolo Teverini a Bagno di Romagna o le bistecche e i salumi di Simone Fracassi nel Casentino. Oppure i Fini fini tirati a mano con funghi porcini al profumo di mentuccia e mantecati con parmigiano delle vacche rosse dell’Osteria della Sora Maria e Arcangelo a Olevano Romano, per anni la migliore osteria d’Italia. I fini fini erano uno dei piatti più deliziosi che trovavo all’Osteria di San Cesareo by Anna Dente, purtroppo scomparsa da qualche anno, ma come si vede, la tradizione non perisce con la dipartita dei cuochi, viene ripresa e mantenuta.

Voi siete la migliore guida, valutate, informatevi e poi provate

Le trovate sulle guide, su Tripadvisor, con le indicazioni degli orari di apertura, dei prezzi, dei menù. Ormai questi siti funzionano meglio delle guide, che spesso non sono aggiornate e il giudizio dei clienti, a mio avviso, nei grandi numeri, può essere più di aiuto di quello dei critici. Anche perché non mi fido tanto della correttezza di tante guide che girano. Quanto costa essere sempre aggiornati? Troppo, non se lo possono permettere di mandare squadre di degustatori ogni anno nelle migliaia di ristoranti a provare, pagando i pranzi. La rete lo fa senza costi. Sono gli stessi clienti a esprimersi.

Non saranno Raspelli o Vizzari o Cremona ma sui grandi numeri il parere conta qualcosa. Io sono per avere qualche indicazione e provare, chi miglior giudice di sé stesso quando si tratta di mangiare? La conoscenza vien provando e sperimentando. Lo stesso Raspelli, che di guide ne sa qualcosa, dice che la prestigiosa Michelin è una “cavolata”! Un giorno s’è accorto lui stesso che per diciannove anni c’era la stessa scheda per descrivere un ristorante. Assurdo ma non è l’unico caso. C’è anche di peggio.

*immagine dal profilo Facebook ufficiale Edoardo Raspelli