Femminicidi: i dati sorprendono… in Italia ne succedono di meno

Al di là dei dati statistici, che non ci vedono ai primi posti in Europa, perché si uccide la donna che si ama e perché poi l’assassino si suicida?

Quanti sono casi di donne morte per femminicidio

Continuano, giorno dopo giorno, i casi di donne morte per “femminicidio”, uccise il più delle volte da mariti, ex compagni o da partner dai quali si vogliono separare. Alla fine di novembre i dati della cronaca parlano già di 82 donne ammazzate dall’inizio dell’anno. Nel 2017 le vittime erano state 123, e nell’80,5% dei casi a ucciderle era stata una persona che conoscevano, nel 35,8% delle volte il loro partner. Gli ultimi casi di cronaca: a Boissano, in provincia di Savona, un operaio di 47 anni ha ucciso la moglie e poi ha tentato di togliersi la vita. L’uomo, Matteo Buscaglia, a seguito di un litigio, avrebbe soffocato la donna, Roxana Karin Zentero, peruviana, con un sacchetto di plastica, mentre i due bambini della coppia, un maschio e una femmina di 12 e 10 anni, dormivano nella cameretta. L’uomo ha tentato di uccidersi tagliandosi le vene ma è stato salvato dai Carabinieri. Altri recenti casi sono avvenuti in Campania, precisamente a Vairano Patenora (Caserta) il 15 novembre, un maresciallo della finanza, Marcello de Prata, di 52 anni, ha ucciso la moglie Antonella, insegnante di 45 anni, e la cognata, Rosanna Laurenza, prima di togliersi la vita. Ha sparato 15 colpi con la pistola d’ordinanza, nella cartoleria di famiglia delle donne, ferendo anche i suoceri, ricoverati in prognosi riservata.

A Sala Consilina, nel Salernitano, il 3 novembre, Gimino Chirichella, 48 anni, con precedenti con la giustizia, ha cosparso, con due taniche benzina, l’abitazione dove viveva con la compagna e ha appiccato il fuoco. Violeta Mihaela Senchiu, di 32 anni, è morta per le tremende ustioni, nonostante il ricovero in ospedale; la coppia aveva 3 figli piccoli, che si sono salvati per miracolo solo perché erano in cortile.

A Civitanova Marche, un macedone di 32 anni ha lanciato l’acido contro la moglie, romena di 29 anni e l’ha accoltellata all’addome e alla schiena, inseguendola in un ristorante in cui si era rifugiata, per sfuggire alla violenza del marito. L’uomo è stato arrestato dalla polizia, mentre la donna è in ospedale.

C’è davvero questa emergenza femminicidi in Italia?

Questi casi ravvicinati, suscitano emozione ma non bastano da soli a giustificare l’ allarme che da tempo registriamo attorno al fenomeno. Mi sembra sia venuto il momento di porci delle domande. C’è davvero questa emergenza femminicidi in Italia? E soprattutto c’è in relazione a quello che accade nel resto d’Europa e del Mondo, riguardo alla condizione delle donne? E poi, a prescindere se sia o meno una emergenza, quali sono le motivazioni che conducono un marito, un parente, un amante o, in meno casi, un amico, ad uccidere una donna che egli dice di amare o che ha amato e dalla quale ha anche avuto dei figli? Visto che oggi le opportunità legali (non quelle economiche) per una separazione e un divorzio, sono facilitate rispetto al passato, perché commettere un omicidio? Perché nel gesto criminoso spesso si coinvolgono i figli, in genere bambini anche molto piccoli? Un’ultima domanda riguarda uno degli esiti più ricorrenti del “femminicidio”, perché l’assassino poi si toglie la vita o tenta di farlo?

Da qualche tempo si sentono voci in disaccordo con l’emergenza del femminicidio. Chiarisco subito che non sono tra questi. C’è chi afferma che sono molti di più gli uomini a morire. Vero ma non per motivi familiari. Il problema per me è più qualitativo che quantitativo. Nel senso che i dati ci dimostrano che in altri paesi il fenomeno ha dimensioni ben peggiori, ciononostante va combattuto e soprattutto compreso anche da noi. Concordo innanzitutto con l’uso di questo termine, che a qualcuno dà fastidio. Un femminicidio è evidentemente l’ omicidio di una donna, equiparabile in quanto tale a quello di un uomo e di qualsiasi altro essere umano di qualsiasi età. Ma con questo termine si vuole identificare un omicidio segnato dal senso di possesso della donna, della “propria” donna. Secondo una ideologia maschilista di riduzione a una “cosa” di proprietà il genere femminile. Vedremo come questa semplice equazione, che ha origini antiche nelle culture europee e medio orientali, tuttavia da sola, non basti a spiegare il fenomeno, in base ai dati che analizzeremo.

L’Italia è il paese sviluppato dove le donne corrono il minor rischio di essere uccise

Grazie ai dati comparativi internazionali raccolti dallo United Nations Office on Drugs and Crime (Unodc) e grazie all’archivio delle denunce per omicidio volontario del Ministero dell’Interno – certamente la fonte più ricca, affidabile e tempestiva su questi temi – dovremmo renderci conto che “l’Italia è il paese sviluppato dove le donne corrono il minor rischio di essere uccise. Infatti, nel periodo 2004-2015 ci sono stati in Italia 0,51 omicidi volontari ogni 100 mila donne residenti, contro una media di 1,23 nei trentadue paesi europei e nordamericani per cui si dispone di dati Unodc.” Riporto qui quanto sostenevano il 27 agosto 2017 Giampiero Dalla Zuanna e Alessandra Minello su “Il Foglio”. Nell’articolo si faceva notare come fosse evidente una più alta percentuale di omicidi perpetrarti a danno delle donne in ex paesi dell’Unione Sovietica o negli Stati Uniti d’America, con incidenza almeno quadrupla rispetto all’Italia e, per restare in Europa, come fossero più a rischio le vite delle donne in paesi come la Finlandia o la stessa Francia e Germania. In sostanza l’Italia ha, nel corso dei decenni trascorsi, un dato abbastanza costante di femminicidi da parte di partner o parenti, con uno 0,23 donne uccise ogni 100.000 residenti. Un dato che corrisponde a meno della metà di quello di altri paesi europei e sarebbe anche in leggero calo!

Un primo dato interessante tuttavia è quello relativo alla proporzione di vittime donne per mano di partner o ex-partner sul totale degli omicidi in cui la vittima è una donna. Questa proporzione, secondo l’articolo del Foglio: “è aumentata nel corso degli anni, passando dal 39 per cento del 2002 al 51 per cento del 2016. Tuttavia, se invece di guardare alle percentuali si considera l’incidenza sulla popolazione, i tassi rimangono pressoché stabili, attorno a 0,25 donne ogni 100 mila uccise, ogni anno, per mano del partner o ex-partner. Quindi, in Italia la lieve diminuzione di omicidi di donne è dovuta al declino di incidenza di quelli perpetrati al di fuori del rapporto di coppia.” In buona sostanza diminuiscono gli omicidi di donne ma non quelli dentro la coppia! Infatti secondo i dati del Viminale, in Italia, in tre quarti dei casi, l’omicidio di donne è una questione di famiglia.

Dai dati forniti dall’Istat emerge che il numero dei femminicidi si mantiene pressoché costante da diversi anni. Quest’anno, secondo il sito “inquantodonna”, abbiamo già raggiunto 82 femminicidi. Nel 2014 erano 136; 128 nel 2015; 150 nel 2016 e 123 nel 2017, pari allo 0.40% su 100.000 residenti. Nel 2017 l’incidenza in Lettonia era del 3,19, in Lituania del 2,95, in Ungheria dell’1,59, in Germania dell’1,13, in Francia 0,98 e in Finlandia 0,86. Nella comparazione dei decenni ultimi si è potuto osservare come, a fronte di una diminuzione di omicidi di uomini, che però restano sempre in numero maggiore rispetto alle donne, quelli delle donne rimanessero stabili. La distinzione è fondamentale perché nel caso degli omicidi di donne gioca un ruolo determinante il partner e la famiglia.

In Calabria il maggior numero di femminicidi e poi Friuli Venezia Giulia, Campania, Sardegna…

In un’altra statistica Istat dove gli omicidi in Italia sono stati suddivisi per sesso, per regione e per relazione familiare con l’omicida, da parte della vittima, risulta che il maggior numero di donne in Italia, nel biennio 2015-2017 sono state uccide in Calabria e poi a seguire in Friuli Venezia Giulia, Campania, Sardegna, Toscana e via così. Però quando andiamo a osservare le vittime in base alla relazione col partner, al primo posto troviamo il Friuli Venezia Giulia e poi la provincia di Trento, il Piemonte, la Toscana, l’Emilia, la Lombardia e la Calabria scivola al decimo posto. Cosa dimostrano questi dati? Che il presunto machismo alla base del senso di possesso che determinerebbe il femminicidio e che dovrebbe essere caratteristico di regioni del sud, non trova conferma nelle statistiche. Bisognerebbe verificare se gli assassini di moglie e amanti delle regioni del nord fossero in realtà dei meridionali trasferiti. Questo dato non ce l’ho. Potrebbe essere una ipotesi da verificare.

Per adesso mi è sufficiente stabilire che il femminicidio ha i suoi numeri più alti in paesi del Nord Europa e, per l’Italia, nelle regioni del nord. Due dati che potrebbero smentire la motivazione machista, di cui sempre si parla quando si commenta un femminicidio.

Recentemente, almeno per quanto riguarda l’Italia, un’ulteriore paura si è aggiunta alla sensazione di una emergenza di violenza sulle donne: la presenza degli immigrati extra comunitari, africani e arabi, albanesi o slavi dell’est Europa. Una forte campagna propagandistica ha portato sulle prime pagine di molti giornali, di orientamento conservatore e sui social network, l’immagine che stupri e violenze fossero appannaggio di questi immigrati. Anche questo dato è falso. Gli stupri sono dovuti a extra comunitari per non più dell’8%, il restante numero è dovuto agli italiani o comunque a cittadini europei. Anche per quanto concerne i femminicidi il dato schiacciante è che circa il 75% sono dovuti a cittadini italiani, nati e cresciuti in Italia e non acquisiti. Ne parla Marina Corradi sull’Avvenire del 3 agosto 2017, per sgomberare il campo dalla possibile accusa a culture diverse dalla nostra, considerate “più primitive” secondo i detrattori interessati. No, la ferocia che spesso si riscontra nelle modalità di uccisione non dipende dall’origine dell’assassino. Le donne assassinate da italiani sono state massacrate a botte, calci e pugni, infierendo con venti e più coltellate in ogni parte del corpo e sul collo o sul volto, oppure con un’ascia, con un punteruolo, strozzando con le mani la malcapitata o facendola soccombere sotto il peso di una pietra. In altri casi la donna viene uccisa con una pistola o con un fucile o gettata dalla finestra.

Noemi Durini di 16 anni di Specchia (Lecce) viene assassinata dal fidanzato di 17 anni a pietrate, lapidata perché voleva lasciarlo. Sebastiano Iemmolo di Rosolini in Sicilia, ha ucciso la moglie Laura Pirri di 32 anni, dandole fuoco. Il tutto per una lite su 20 euri che l’uomo chiedeva alla compagna. L’ha accusato il figlio di 10 anni che ha assistito alla scena. È una storia di sesso e di cocaina invece quella che ha travolto Tiziana Pavani di 55 anni, che ha conosciuto in una chat di incontri Luca Raimondo Marcarelli di 33 anni, il quale l’ha tramortita nel sonno con bottigliate in testa e poi, uscendo dalla casa, ha aperto il gas e provocato un incendio con cui voleva occultare le prove. Casi diversi, uomini e donne di età diverse, non c’è una ragione culturale, etnica, né regionale o dovuta a malattie mentali.

Si domanda la Corradi nel suo articolo: “Pazzia? Chi conosceva quegli uomini li considerava, fino al giorno prima, del tutto normali. Un anno fa, dopo l’ultima raffica di donne uccise, chiedemmo a Eugenio Borgna, grande vecchio della psichiatria italiana e scrittore, se vedeva della pazzia in questa catena di sangue. Borgna disse di no. Disse, all’interno di una desertificazione dei valori, di una reificazione dell’altro e dell’altra, di un considerare la propria donna come una cosa. Di uomini che si sentono minacciati dall’abbandono, fino a distruggere l’oggetto che sfugge dalle loro mani: come fa un bambino con un giocattolo che si è rotto. Un istinto arcaico, aggiunse il professore, ma non ebbe timore a chiamarlo per nome, quell’istinto: “malvagità”, pronunciò.”

Siamo arrivati a una prima risposta. Quello che muove gli assassini è un sentimento profondo di “malvagità”, difficile da ammettere, perché non è un raptus, non è un momento di perdita di lucidità, la malvagità alberga sonnacchiosa nei nostri animi, pensiamo di esserne immuni, soprattutto verso la persona che amiamo. Ma spesso chi amiamo è proprio chi può farci più male, un male insopportabile, imparagonabile con quello di qualsiasi altro estraneo. È questo male che risveglia il senso di malvagità che dormiva in noi. Che non sapevamo neanche di avere. Che ci rende odiosa la persona amata, tanto amata e per questo tanto odiabile. Non voglio analizzare qui cosa intendo per amore, chiaramente mi riferisco al sentimento di cui tutti parlano e al quale pochi sanno dare il giusto significato di donazione, di comunanza di felicità per il benessere dell’altro. Dice una canzone di Sting “If you love somebody, set them free…” Se ami qualcuno lascialo libero. Ecco questo corretto concetto di Amore è l’esatto contrario di quello, invece più diffuso: “Se ami qualcuno tienitelo stretto tutto per te”. Da cui discende la gelosia, il senso di possesso, la riduzione a cosa di proprietà dell’altro, figli compresi.

Dice una canzone di Sting “If you love somebody, set them free…”

Ora ci dobbiamo domandare, dando valore alle statistiche, se i Lettoni e i Finlandesi siano più possessivi degli Italiani o dei Greci, che figurano in coda alle classifiche dei femminicidi. Sembrerebbe così. A meno che il dato non sia fuorviante per altre motivazioni. Per esempio l’uso dell’alcool e per esempio la relativa facilità all’accesso ad armi come coltelli e pistole, in quei paesi, rispetto all’Italia. A questo dato nessuno ha ancora pensato. Bisognerebbe capire quale sia, se vi sia, una incidenza dell’uso dell’alcool nella decisione di ammazzare la moglie in quei paesi. Non c’è dubbio che nel Nord Europa l’uso di vodka, whisky, gin ma anche birra sia estremamente più diffuso che in Italia e che per molti sia l’unica reale possibilità di fuga mentale dalla alienazione quotidiana, nelle sere post lavoro e nei giorni di festa. Non c’è dubbio che un minimo di self control, già potrebbe scongiurare il ricorso a un atto scellerato, durante una lite coniugale o tra ex coniugi.

Un altro aspetto, che è stato invece analizzato, è il cambiamento del ruolo della donna, in questi ultimi anni. Consapevole dei suoi diritti, sempre più necessitata a esprimere la sua autonomia e il decisionismo, che prima le mancava, la donna oggi sembra passare attraverso tutte le dure prove della vita, per conquistarsi una indipendenza che non è solo economica, ma anche di personalità, di costruzione della propria esistenza. Oggi una donna è più capace di dire “no, non ci sto più”, non sopporto più le vessazioni, le umiliazioni, le violenze psicologiche, le minacce. Non ha più paura. In questo le donne del Nord Europa sono sicuramente più avanti delle donne del Sud. Ma il processo è in cammino, ovunque nel mondo e non solo in Occidente. Questa nuova immagine di femminilità, autonoma e decisionista, spiazza l’uomo che sente di non avere più margini di manovra, per ridurre la sua compagna alla costrizione che prima era possibile. Una donna che sa ribellarsi, che sa assumersi le responsabilità di sé stessa, dei figli, del futuro, di fatto elimina la funzione dell’uomo. L’uomo semplicemente “non le serve più”, quello che poteva fare l’ha già fatto, ora può anche sparire. La storia d’amore con le sue illusioni fiabesche è tramontata. I figli sono nati e ora rappresentano più responsabilità da assumersi che sogni da realizzare. Questa condizione pone l’uomo in difficoltà verso la donna convivente ma soprattutto, non va dimenticato, lo pone in difficoltà con gli altri uomini: amici, colleghi, conoscenti. Agli occhi degli altri uomini lui si sente un perdente, un fallito, svergognato dalla “sua” donna. Quando sorge il conflitto con il “lui” che reclama i suoi poteri, tuttavia la donna è già oltre. Sono due esistenze che vivono su piani diversi senza alcuna possibilità di comunicazione. Lei ha già fatto le valigie o meglio quelle dell’uomo, affinché si tolga di mezzo. Forse è questa nuova figura femminile che scatena la malvagità del partner, ormai senza più potere diventa come una bestia ferita. Una scoperta difficilmente sopportabile, specialmente se l’uomo è di mezza età e pensa di non avere più altre possibilità di ricostruirsi una vita affettiva.

Una volta commesso l’abominevole atto, che riporta la moglie, la fidanzata o la ex nell’alveo del potere dell’uomo/padrone, il maschio si accorge di aver perso la funzione e il senso della sua esistenza. Lei gli ha gettato in faccia la sua inutile presenza. Lui l’ha uccisa. Ha distrutto per sempre e senza rimedio la storia d’amore, e con la storia ha ucciso l’oggetto del suo desiderio, ha ucciso i figli, la speranza, il futuro. La vergogna invade il suo essere. Forse più della paura di una vita distrutta, con la mente bloccata su quei secondi, su quell’atto ultimo, micidiale: l’omicidio. Il dolore deve essere tale da non consentire neanche l’ipotesi di poter ricominciare a vivere: meglio finirla. Il suicidio è l’unica risposta possibile al nulla che ti pervade, al senso di vuoto e di angoscia che si è impossessato della sua mente. La malvagità mangia sé stessa nell’indurti al suicidio.

Altro non può fare, ora che ha preso il sopravvento sull’umanità.

Ho tentato una spiegazione delle motivazioni alla base del comportamento degli autori di femminicidi. Mi sono basato sui dati statistici che dimostrano che non è solo un senso di possesso a determinarli ma una serie di fattori concomitanti: la situazione sociale, il senso di emarginazione, che può venire da una crisi professionale, ma anche la crisi matrimoniale stessa, soprattutto il senso di impotenza latente dell’uomo a confronto con il senso di potenza che si avverte invece nella donna di oggi. Non so se questa è la strada giusta per capire, certamente il processo è avviato e sta a noi, uomini e donne di questa epoca, rifletterci e riflettere su cosa vogliamo fare delle nostre vite, lasciando il più possibile libere di autodeterminarsi le persone che diciamo di amare e, in ultimo, forse si tratta di avviare un processo per imparare ad amare gli altri e soprattutto ad amare sé stessi.

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