Omaggio all’ultimo maestro del cinema italiano: Bernardo Bertolucci

Il viaggio diventa viaggio esistenziale, viaggio dell’anima, come ne Il Thè nel deserto (1990)

Bernardo Bertolucci è stato l’ultimo ad andarsene tra i grandi maestri del cinema italiano. Premiato con 9 Oscar per L’Ultimo Imperatore, tra questi anche per la miglior regia e migliore sceneggiatura, autore di film controversi  come solo i veri poeti sono capaci di fare. Porta via con sé mille domande, milioni di riflessioni e quel tango tra manichini umani in una Parigi desolata e mortifera, cui difficilmente troveremo risposte. Figlio di uno dei maestri della poesia italiana, Attilio Bertolucci, grazie al quale conobbe Pier Paolo Pasolini con cui iniziò a lavorare nel film Accattone dietro alla macchina da presa come assistente alla regia.

I capolavori di Bernardo Bertolucci

Tra i numerosi film, ne vogliamo ricordare alcuni. Il primo da regista, La commare secca (1962), tratto da un soggetto di Pier Paolo Pasolini, la ribalta internazionale e bigottamente scandalizzata con Ultimo Tango a Parigi (1972),  l’epopea di Novecento (1976), La luna (1979) esasperato rapporto incestuoso tra madre e figlio tossicodipendente che anticipa e, probabilmente, ispira uno dei più talentuosi registi contemporanei, il canadese Xavier Dolan con il suo Mommy (2014), La tragedia di un uomo ridicolo (1981) ambientato nella sua Parma,  la consacrazione mondiale e la magnificenza di L’Ultimo Imperatore (1987), la ricerca spirituale nel Piccolo Buddha ( 1993), lo stupore della gioventù e della vita in ‘’Io Ballo da sola (1996), la disperazione nell’ultimo film, Io e te (2012).

La sua poetica cinematografica parte dal provincialismo della sua terra natìa, Parma,  dalle storie di provincia, e arriva attraverso temi universali a conquistare il mondo.

La cifra stilistica di Bertolucci è una miscellanea perfetta di poesia, visione, immagine, fotografia, spazio, musica. Come non ricordare il ‘’trittico’’ Bertolucci, Vittorio Storaro, talvolta anche con Carlo Di Palma, maestri della direzione della fotografia, e Ryūichi Sakamoto, altro autentico artista della musica, un’ unione che ricorda per intensità Sergio Leone ed  Ennio Morricone.

Ma è proprio nei film ‘’minori’’ che Bertolucci, a nostro avviso, dà il senso più compiuto del suo cinema e della sua visione poetica d’insieme. All’interno di essi la fotografia si sposa con lo spazio, lo stile di regia, la colonna sonora e la recitazione, senza lasciare alcuna perplessità, come in uno straordinario romanzo d’autore.

Il Thè nel deserto, viaggio esistenziale

Il viaggio diventa viaggio esistenziale, viaggio dell’anima, come ne Il Thè nel deserto (1990), tratto dal romanzo omonimo di Paul Bowles, dove ampi spazi denotano l’attraversamento di un abisso interiore, la morte, e , ancora, la solitudine e la scoperta di sé. E mentre si consuma un amplesso al contempo appassionato e straziante, le parole dei due coniugi protagonisti hanno il sapore del piombo nello spazio infinito e incerto del deserto.

‘’Qui il cielo è così strano, è quasi  solido  come se ci proteggesse da quello che ci è oltre.

 Cosa c’è oltre?

 Non c’è niente. Solo notte.

Vorrei poter essere come te, ma non ci riesco.

Forse tutti e due abbiamo paura della stessa cosa

No. Tu non hai paura di star solo. Non hai  bisogno di niente e di nessuno.  Vivresti anche senza di me

Sai che per me  amare significa amare te. Forse tutti  e due abbiamo la paura di amare troppo’’.

Lampi di saggezza e momenti di grande verità e splendore, talvolta la luce che Bertolucci accende è dolorosa e però indispensabile, quella luce che scorgiamo anche noi comuni mortali, e che si manifesta solo al tocco di un grande artista.

L’ Ultimo Tango a Parigi fu mandato al rogo

Ultimo Tango a Parigi (1972),  un film rivoluzionario, ma non solo, che non è un film erotico, o se lo è, lo è come e quanto il romanzo Tropico del Cancro di Henry Miller , ovvero  nel linguaggio nuovo, nella  dinamica ancestrale tra Eros e Tanatos, ed è un film sulla solitudine e sulla morte. La morte è centrale sin dall’inizio del film che si apre, infatti, con il suicidio, già avvenuto, non visibile ma inquietamente presente, della moglie del protagonista, Marlon Brando, suicidatasi tagliandosi le vene dei polsi nella vasca da bagno della loro casa. Tutto si snoda lungo il percorso dell’erotismo che qui è assolutamente presagio di morte, pur sembrando, al contrario, apparentemente, un cammino verso la salvezza e la redenzione. Mera illusione di aver trovato l’amore, l’altro da sé, nell’appartamento che diviene spazio vitale, a tratti claustrofobico ma pure rassicurante, che protegge i due protagonisti,  nella  delimitazione chiusa tra quattro pareti, laddove la predestinazione e l’epilogo disperato vengono connotati magistralmente anche dai rossi di Vittorio Storaro come in un quadro di Francis Bacon. Sul Ponte Bir-Hakeim un magistrale Marlon Brando con indosso il suo iconico cappotto cammello, lo sguardo perso e tormentato, la bellezza stralunata di Maria Schneider, camminano  trafelati, ansanti, uno dietro l’altro, assieme e pure soli, ignari ancora, verso nessuna meta.

‘’Poiché non sappiamo quando moriremo si è portati a credere che la vita sia  un pozzo inesauribile. Però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia, un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che senza neanche riuscireste a concepire la vostra vita, forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno.  Quante altre volte guarderete levarsi la luna, forse venti. Eppure, tutto sembra senza limite. (Monologo  finale tratto da ‘’Il Thè nel Deserto’’)

Grazie, Maestro.

Lascia un commento