Religione, Bisogna pregare sempre, senza stancarsi

di Il capocordata

La parabola del giudice disonesto (Lc. 18, 1-8), rivolta ai discepoli per insegnare loro la necessità di pregare sempre, senza scoraggiarsi, si legge soltanto nel vangelo di Luca. Affiora subito il personaggio principale (v. 2), l’unico di cui si parlerà nell’applicazione (v. 6). E’ il giudice di una piccola città in cui può rendere giustizia a modo suo, senza appello. Viene descritto il suo pensiero profondo perché rappresenta la molla del  racconto: non c’è speranza alcuna di vederlo rendere giustizia. Davanti a lui sta una vedova (v. 3). Non una parola per descriverla: la sua stessa condizione ne fa il tipo della persona senza difesa. Ripetutamente viene a trovare il giudice e gli presenta la sua richiesta estremamente semplice: “Fammi giustizia contro il mio avversario” (v. 3). L’oggetto, la legittimità della sua causa, e la persona dell’avversario rimangono ignoti. Tutto il racconto è imperniato su un unico punto: il giudice tira l’affare per le lunghe, senza tener conto delle esortazioni tradizionali a far valere il diritto della vedova, a non permettere che venga oppressa, a renderle giustizia, come si legge nella Scrittura (cfr. Esodo, Deuteronomio e i profeti).

Ma finalmente il giudice si decide a giudicare. Ne rivela i motivi in un monologo interiore (vv. 4-5) che non ha nulla di un’analisi psicologica, ma rappresenta un procedimento classico delle parabole per dare il senso dell’azione. Mette in luce che il giudice non ha motivi validi: agisce per puro egoismo, perché la donna lo annoia e ritornerà continuamente a importunarlo. L’applicazione troverà qui un facile “a fortiori”, “a maggior ragione”! La parabola si rivela d’un genere molto puro per la sobrietà, la semplicità dell’azione, il carattere tipico dei personaggi, l’assenza di ogni particolare descrittivo: tutto concorre all’azione.

L’applicazione (vv. 6-8)

Questa parabola, come molte altre nel Vangelo, è seguita da un’applicazione che ne mette in risalto il significato. “E Dio non farà giustizia ai suoi eletti…” (v. 7): chi oserebbe pensare che Dio non renderà giustizia ai suoi eletti, a coloro che sono ammessi nel regno di Dio? Gridano giorno e notte per invocare il giudizio finale che metterà fine alla loro infelicità. No, il Signore non tira le cose per le lunghe, renderà presto giustizia.

La giustizia sarà resa prontamente a quanti la chiedono (v. 8): “Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?”; nell’ultimo giorno vi sarà ancora la fede? Si tratta dell’impegno verso il Signore, vissuto nella fedeltà concreta della testimonianza e della vita. L’interrogativo di Gesù sta ad indicare che una minaccia grava su questa fedeltà. Per esperienza Luca pensa soprattutto alle persecuzioni che impongono ai credenti di rendere testimonianza a Gesù a rischio della vita. L’interrogativo contiene una pressante esortazione ai fedeli che attendono la venuta del Figlio dell’uomo. La parabola ha promesso che Dio non mancherà di rendere giustizia ai suoi eletti provati nel mondo. Ma essi saranno fedeli fino in fondo, nella preghiera?

Tutto il racconto della parabola vuole rispondere alla domanda della Chiesa: perché il Signore non viene ancora? La fede, infatti, vive del desiderio di incontrarlo, senza di lui il discepolo è come la vedova, priva dello sposo. Ma lui sembra insensibile anche all’insistenza più importuna; pare che ceda solo a fatica e per non essere disturbato oltre, come il giudice ingiusto. In realtà il Signore si comporta da sordo, solo perché vuole che gridiamo a lui, desidera udire la nostra voce. L’esaudimento è sicuro, bisogna però aver fede. Se la sua venuta è certa, bisogna nel frattempo importunarlo. In questo consiste la fede: una richiesta insistente del suo ritorno, che tiene desto il nostro desiderio di lui e ci preserva dal cadere nella tentazione radicale di non attenderlo più. Per questo bisogna pregare senza stancarsi. La preghiera infatti ci apre gli occhi sul Regno, già venuto nel nascondimento e nella sofferenza. Solo alla fine si rivelerà nella gloria. Ma è già in mezzo a noi qui e ora, nella lotta per la fedeltà al Signore con una preghiera insistente che ci fa entrare in comunione con Dio: è questo il frutto che essa porta con sé, superiore a ogni nostra attesa.

Si può pregare sempre, perché la preghiera non si sovrappone a nessuna azione. Le illumina tutte e le indirizza al loro fine. Il cuore può e deve essere intento in Dio e presente a lui, perché è fatto per lui. L’azione che non nasce dalla preghiera è come una freccia scoccata a caso da un arco allentato: senza fine e senza forza, non può raggiungere il suo bersaglio.

La preghiera è importante perché è desiderio di Dio. E il desiderio di lui è il più grande dono che ci sia stato fatto. Dio, essendo amore, altro non desidera che essere desiderato. La preghiera è un puro desiderio, povero e in grado di far nulla. Proprio in questa nullità raggiunge il suo fine: attendere il tutto. Il nostro peccato, assenza e lontananza da lui, si evidenzia nella preghiera più che altrove. Quando si prega si lotta con leoni e draghi, anzi con Dio stesso, sul quale proiettiamo la nostra cattiveria. Per questo la preghiera è una lotta. Essa tiene viva nella notte l’attesa della luce: è il desiderio del ritorno del Signore, necessario al credente come l’acqua per il pesce. La venuta del Signore e del suo regno è frutto della preghiera. Il ritorno del Signore è ormai legato alla preghiera, che è l’oggetto primo dell’invocazione.                                                    

Bibliografia consultata: George, 1976; Fausti, 2011.

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